C’era una volta la Scuola (seconda puntata)
L’odore del pane sembrava che non finisse mai!! Lo scolaro somigliava ad un sub, quando immergeva la testa dentro la cartella scolastica, quasi cercasse un tesoro nascosto chissà da quanti anni. Anche se sapeva benissimo che lì dentro, nella cartella, avrebbe trovato come previsto, solo una fetta di pane con sopra una fettina di mortadella.
Il tutto avvolto in un foglio di carta marrone. Solo da questo era composto il break alimentare per i bambini delle Scuole Elementari di tanti decenni fa. Su quella fetta di pane, si immaginavano campi di grano sterminati e stesi al sole. Tanto sole, dello stesso colore del pane: un bianco che tendeva al giallo. Il colore del sole d’estate. Il pane di una volta, aveva dentro, l’anima del contadino, le sue orme si potevano scorgere, se quella fetta venisse messa vicinissima agli occhi.
Appena uscito dalla cartella, la fetta di pane veniva quasi innalzata: come un’eucarestia laica che toglieva la fame per alcune ore. Lo stesso facevano altri ragazzini, con “quell’ostia gigante”. Avere del pane nella cartella, era segno che quel ragazzino aveva chi si curasse di lui.
La madre preparava tante fette di pane, quanti erano i figli che dovevano andare a scuola quel giorno, lo stesso dicasi delle fette di mortadella. Nulla doveva essere sprecato: l’economia domestica dell’epoca ha insegnato a molti di noi il valore del cibo e di tutto quello che c’è intorno.
Ricordo che il mio amico di banco, Pierino De Leo, portava quasi tutti i giorni, qualche fetta in più in classe, avendo in casa un forno, dal quale la madre quotidianamente sfornava del pane fatto in casa (“lu pan trumbat”). Alcuni della nostra classe andavano a scuola, ripensandoci, forse solo per assaggiare quel pane, le mani affondavano dentro.
Si assaporava, ad ogni morso, tutto ciò che un genitore fa per i propri figli, si sentiva la carezza dei genitori che ti invogliavano a capire la vita e il mondo, andando a scuola tutti i giorni. La mollica rappresentava la dolcezza e la flessibilità della vita, e la crosta la parte più dura, quella da scavare per arrivare al centro del pane. La consumazione della fetta di pane avveniva quasi in silenzio: in quel momento era la natura che ci diceva di non parlare, poiché era lei che doveva far sentire la sua presenza.
Però, c’erano alcuni scolari che non sempre potevano permettersi di mangiare tutti i giorni pane e mortadella, li vedevi con le spalle al muro e con le braccia lungo il corpo, anch’esse che toccavano il muro. Come una resa morale e fisica. In quei casi erano i maestri che sopperivano quell’assenza di cibo e offrivano quello che potevano.
La povertà di tanti decenni fa, si sentiva con mano. In ogni famiglia c’erano normalmente 5-6 figli, tutti nati a distanza di un anno uno dall’altro: la differenza di un anno di età tra un fratello e un altro era la norma. Lo Stato in questi casi, aiutava le famiglie bisognose come poteva, tramite il Patronato Scolastico. Ricordo benissimo quando entrava il Direttore in classe (tutti in piedi!!) e ci spiegava quello che ci doveva essere dato: senza molti giri di parole elencava i nomi dei ragazzini dicendo quello che toccasse ad ogni scolaro.
Penso che erano pochissimi quelli che non gli toccasse nulla: i ricchi erano una rarità in una realtà del Sud come la nostra. Ascoltando alcuni coetanei, che ricordano come fosse organizzato il Patronato Scolastico, ricordano che normalmente veniva dato ad ogni bambino bisognoso: due chili di zucchero e quindici litri di latte all’anno. Oppure si poteva optare per un paio di scarpe sempre all’anno.
Non si scandalizzassero i giovani di oggi (peggio ancora se ridessero…), ma negli anni ‘60 e oltre, molti ragazzini, un paio di scarpe nuove, forse lo vedevano solo quando facevano la Prima Comunione (forse!!!) Ci si arrangiava come si poteva. All’epoca si diceva: “Chi ce ajaveza prima, ce vest” (“chi si alza per primo, si veste!!”) e non era un’esagerazione.
Dicevamo, per chi scegliesse di alimentarsi con due chili di zucchero e quindici litri di latte all’anno, questi generi alimentari li poteva ritirare: il latte presso una latteria che si trovava in Corso Giannone, e la marca era “Daunialat”, un’azienda alimentare di Foggia ormai scomparsa. Il latte veniva messo in una confezione di cartone a forma di piramide(!?), e per aprire questa confezione, si doveva tagliare la punta della piramide di cartone.
Lo zucchero si ritirava in via Roma presso il negozio “da Colorinda”, qualcuno ricorda che lo zucchero veniva dato anche sfuso, è probabile.
Per chi sceglieva l’altra opzione, quella delle scarpe, le stesse venivano distribuite da un negozio di calzature di via Roma. Per i ragazzini era un paio di mocassini marroni, per le ragazzine un paio di scarpe blu che si chiudevano da dietro con una fibbia, e che avevano due fori sulla parte superiore della scarpa.
I libri che si usavano alle Scuole Elementari erano due: il “Sussidiario” e il libro per la “Lettura”. Ricordo che il mio Sussidiario si chiamava “Mattinata”, e quello per la Lettura, “Mamma”. I libri venivano ritirati gratis sempre “da Colorinda”, la quale era bersagliata, prima che aprissero le scuole, dalla domanda di centinaia di ragazzini: “Lu libbr della prima alimentare quann adda rrevà?” “Int e quisti jurn…” era la risposta di questa signora.
Una volta che il libro era nelle nostre mani, subito si vedevano le differenze con i libri degli altri scolari: non tutti avevamo la stessa pubblicazione, anche se frequentavamo le stesse classi: erano i maestri che decidevano quali libri usare. E da quel momento iniziava la caccia al Sussidiario più bello. “Lu libr mia è chiù tarracut, lu tova è tropp suttil”. Subito arrivava la risposta del collega scolaro: “E quant si fregna: tu ada studià d chiù. Sa che ada fa? straccia li lutem paggen…”
La prima raccomandazione che facevano i maestri era sempre quella: “Mi raccomand, non facit li recchie alli libbra, l’ita sapè tenè”. Ma le “orecchie” ai libri era la prima cosa che veniva fatta!!! E la seconda cosa, si scriveva il proprio nome dentro il libro. In modo che non venisse rubato dall’amichetto di scuola. Il Patronato Scolastico dava anche quaderni, penne, c’erano anche delle penne verdi (?!); matite per colorare e pennarelli “a spirito”, e l’immancabile album per disegnare, dove sopra era rappresentato Giotto mentre guardava le pecore e dipingeva, e Cimabue che lo ammirava. L’album per disegnare era prodotto da “Fabbri Editori”, invece i quaderni da “Cartiere Pigna”
Si imparava a leggere e scrivere alle Scuole Elementari, agli asili si andava solo per giocare (ed era giusto così). Molti genitori erano analfabeti. E spesso erano i figli, una volta istruiti, ad insegnare ai genitori a leggere e scrivere. Infatti alcuni genitori, fattisi grandi i figli, si vantavano con gli amici dicendo che tenevano “dei figli di penna!!”
Saper leggere e scrivere tanti anni fa era un valore aggiunto, in famiglie dove si andava avanti “di intuito”. Non si doveva più andare dal maestro che abitava “allu pizz la strada” per farsi leggere le lettere che il marito spediva alla moglie dalla Germania. Ora c’erano dei bambini che conoscevano l’alfabeto e sapevano le tabelline a memoria!!
(E la memoria sarà l’argomento della prossima puntata: quando era obbligatorio imparare le poesie!!)
Mario Ciro Ciavarella Aurelio