C’era una volta la Scuola (terza puntata)
Ci si presentava davanti al farmacista con un biglietto in mano. Lì sopra c’era scritto il nome del farmaco, e spesso il termine scientifico della molecola. Un’incombenza che tutti i bambini erano obbligati a svolgere, si andava in farmacia senza sapere esattamente il nome di quello sciroppo o di quella compressa. Quel biglietto portato in una mano chiusa, per paura di perderlo, serviva perché molti non avevano tanta memoria, nel ricordare “strani” nomi.
I bambini avevano una memoria “in formazione”, parliamo di bambini che frequentavano i primi anni delle scuole elementari.
La memoria. Era come se fosse per noi gente di mezza età una materia scolastica a parte, quando frequentavamo le Scuole Elementari. E bisognava esercitarla il più possibile, non solo perché dovevamo recitare le preghiere imparate al Catechismo, ma soprattutto perché dovevamo fare i conti a memoria, sapendo esattamente tutte le tabelline, dall’uno al dieci.
E poi, si dovevano imparare a memoria anche le poesie. Come se fossero delle preghiere laiche, ma che comunque meritavano di essere ricordate e recitate, non solo in classe ma anche a casa. Magari in occasione di festività come compleanni e onomastici, per dimostrare ai presenti che avevano un nipotino o un cuginetto che aveva una testa “grande così”.
La memoria. Quando frequentavamo le Scuole Elementari, era un plus per quelli che ce l’avevano sviluppata e bene allenata (ma era soprattutto una questione naturale), così come c’erano ragazzini bravi nelle materie umanistiche (che avevano una sensibilità d’animo forse maggiore rispetto agli altri).
E il signor Maestro era fiero di “esibire” alcuni di questi alunni davanti ai suoi colleghi, per dimostrare che il suo insegnamento aveva ottenuto risultati così rilevanti!! Naturalmente il signor Maestro non c’entrava nulla con le capacità di quei piccoli geni matematici, ma gli faceva comodo pensarla così. Ma la prova regina, quella che poteva togliere ogni dubbio sulle capacità mnemoniche di alcuni scolari, era la “poesia lunga”.
Quella chilometrica, che prendeva almeno due pagine del libro di “Lettura”. Come la poesia del “Cinque Maggio” di Manzoni. Decantata da un ragazzino di 9 anni, faceva impressione, non solo per la lunghezza del testo, ma anche per alcuni termini declamati non proprio alla portata di tutti. Oppure “Il Sabato del villaggio” di Leopardi, immaginate un bimbo che sale sulla sedia davanti agli altri alunni e recita l’ode di Leopardi come se fosse la tabellina del “due”.
Questi scolari erano molto apprezzati, e il loro voto sempre alto in Italiano. E tutti gli altri che non avevano una memoria ferrea come quella del loro amichetto, escogitavano alcuni trucchi per poter memorizzare il prima possibile almeno le poesie “corte”.
Uno dei “trucchi” che si usavano era quello di imparare la poesia a memoria prima di andare a letto. Meglio se la si imparava stando coricati(!?), “strategia” che non ricordo se la capimmo da soli oppure ce la suggerì qualcuno più grande di noi, che quel modo di esercitare la memoria avrebbe avuto degli esiti straordinari.
E in effetti era cosi: si prendeva il libro, ci mettevamo nel letto, e si ripeteva il più possibile quella poesia, fino a quando non iniziavano i primi sbadigli. Il libro scivolava via dalle mani, e il giorno dopo ci svegliavamo con quei versi sulle labbra. Strano ma vero!! La nostra mente di notte lavora, e la prova provata di questa ipotesi era proprio la capacità di imparare la poesia in questo modo.
La tabellina forse aveva un approccio diverso rispetto alla poesia, come apprendimento: lì ci voleva un metodo… matematico, appunto. Non serviva solo la memoria ma anche una logica che seguisse quella dei numeri. E infatti, come dicevamo, c’erano alunni che naturalmente erano portati ad imparare in fretta non solo la tabellina ma anche calcoli matematici complessi per bambini delle scuole elementari.
Quando il maestro chiamava alla lavagna lo scolaro e gli diceva di fare un’operazione di matematica, si insegnava prima di tutto a mettere “in colonna”, in modo che il giovane studente capisse quale fosse la logica di quell’operazione. Sulla memoria si basava quasi tutta la “bravura” dello scolaro: non si poteva pretendere che ragazzini dai 6 ai 10 anni avessero straordinari teorie o congetture filosofiche che gli avrebbero fatto “alzare il voto”. Naturalmente si considerava anche la volontà e la disciplina del bimbo durante l’anno scolastico, ma la memoria era la capacità regina durante i primissimi anni di studio.
Non ho avuto la sfortuna di vivere il dramma di sapere della dipartita di un amichetto di Scuola Elementare: fortunatamente nessuno dei miei amici della “Balilla” è scomparso in tenera età. Però ci sono stai dei casi in cui ragazzini che frequentavano i primi anni delle Scuole Elementari ci hanno preceduto Altrove. E mi raccontarono alcuni miei coetanei, che in questi casi, i bimbi che sapevano che il loro amichetto non c’era più, venivano non obbligati, ci mancherebbe, ma indirizzati ad andare a vedere il feretro di colui che non avrebbe più frequentato la loro classe.
Perché dico questo. Perché anche in questo caso la memoria doveva occupare una fetta rilevante nella mente dei bambini: non si dovevano dimenticare coloro che non avrebbero fatto mai più parte della nostra infanzia. Si imprimeva nella mente dei piccoli, già da allora, il concetto di Aldilà: si insegnava, a pochi anni di vita, che comunque la vita continuava anche dopo. Dopo aver lasciato quel posto, in quel banco, di quell’aula, di quella scuola.
Si insegnava a credere che la vita è comunque bella: durante e anche dopo quella terrena. Lo so che un aspetto forse un po’ crudo dell’attività di ragazzini di Scuola Elementare, ma ricordare tutto ciò che fece Giulio Cesare, valeva almeno quanto quella di ricordare cosa fece nella sua pur breve vita il bambino che fino a pochi mesi fa studiava in classe con alcuni di noi.
(Nella prossima puntata: igiene e profilassi…a quei tempi)
Mario Ciro CIAVARELLA AURELIO