C’era una volta il Pane

Si sentivano molte voci. E in quel momento stavano rientrando in casa. Le voci testimoniavano la presenza di gente che era lì, e che aspettava di entrare. In una casa uguale a tante altre: in campagna, con un piccolo orto, pochi animali e tanto spazio intorno. Tanto grano.

C’erano campi di grano verso tutti i punti cardinali. Dovevi solo girare la testa e scegliere quale ammirare. Contemplazione di ciò che l’uomo aveva generato: spighe e spighe, giallo su giallo, oro di natura terrena, che sembrava non avesse nessun intervento divino.

Il grano e poi il pane nascevano dopo un lavoro sapiente e paziente dell’Uomo. Un lavoro arcano che non chiedeva nessun permesso per essere eseguito: si doveva fare, un lavoro naturale senza tanti artefici.  L’aratro è sempre lì, sul posto, mai stanco del suo lavoro. Instancabile attrezzo che non chiedeva nulla.

E poi i buoi: anticipavano il mezzo di metallo che avrebbe poi tracciato i solchi, che dovevano accogliere ciò che la terra avrebbe generato. Passaggi di uomini per dare un senso a quel lavoro che nacque dal sole, che dette il suo colore a spighe e pane. Il giallo che non ha tonalità diverse, come se il sole avesse impresso sul nostro pianeta le sue impronte digitali, e non altro.

La terra viene divisa in due parti, e in mezzo si aspetta che cada dalle mani degli uomini, ciò che deve generare nuove vite fatte da spighe. La semina. Cade come è giusto che sia. La gravità che diventa dio. E richiede a gran voce tutto ciò che le spetta. Semina che darà spighe e spighe, vita su vita, pane su pane, e uomini che diventeranno Uomini per continuare per l’eternità questo percorso di generazione che nessuno ci ha insegnato. La Natura è nata senza bisogno di seguire lezioni.

Poi si aspettava. Dopo il lavoro fatto si aspettava che i primi gemiti si affacciassero dal terreno. Non si udivano ancora, ma c’era la netta  sensazione che il grano stesse richiamando l’attenzione degli uomini. Come dire, venite a prendermi e fate quello che dovete farne di me!!  Voci sommesse e sotterranee che avevano già il timbro di “gente adulta”, che aveva sete di giustizia: il pane esiste per tutti. E non lo si nega a nessuno!

I campi di grano adesso sono nati. Gli uomini hanno l’imbarazzo della scelta da dove cominciare a mietere: non vogliono offendere nessuna spiga, lo sanno che stanno per essere tagliate e iniziare a vivere in altri corpi, e in altri pensieri, che poi racconteranno come è possibile far nascere altro grano e altra vita.

 La mietitura sembra una carneficina che non miete vittime. Un ossimoro tra quelli più belli che la Natura è riuscita a darci! “Che non miete vittime”. È bello pensare che ci siano azioni umane che taglino qualcosa senza fare del male. Si nutre la Vita togliendo vita a terreni che hanno generato. La Terra che nutre se stessa.

È incredibile eppure è così: la Terra che muore facendosi falciare, ma poi nutre ciò che le cammina sopra! Non si fa fregare, la Terra!! Ci tiene contenti in tutti i modi, anche quando pensiamo di sfruttarla. La Terra è femmina, e le donne generano. Generazioni di terreni e uomini formeranno un infinito ciclo di vita sena fine. Solo Vita Terrena Eterna.

L’eternità, l’Uomo la può trovare solo su questa pianeta: è qui che il ciclo della vita del grano e del pane non avranno mai fine. Il Male non attecchisce dove il grano nasce e copia il colore al sole, un giallo che non può essere sconfitto dagli altri colori. È quell’Altrove che molti sognano dove vivere dopo, solo giallo, di notte e di giorno.

E poi nasce il pane. E quelle voci che ascoltavamo all’inizio di questa storia le fanno da colonna sonora. Quando il pane viene finalmente generato, il vociare dei contadini gli fa festa. Come quando viene portata in casa, una neo mamma, dopo un parto appena avvenuto in ospedale. Il nascituro è bello, grande, non piange molto e ha gli occhi già aperti. Il pane gli somiglia molto: è bello, è grande, non piange e ha la crosta con gli occhi.

E quando viene tagliato la sua anima migra. Su altri pianeti, dove cerca terreno fertile per rendere quei mondi simili al nostro.

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Mario Ciro Ciavarella Aurelio

 

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