C’era una volta la Morte
Il corteo funebre doveva attirare l’attenzione. Una processione chilometrica che percorreva la “chiazza d sop” e la “chiazza d sotta”, per poi proseguire verso Piazza Europa, come penultima tappa, e infine raggiungere il cimitero. Al cimitero ci arrivavano solo i parenti stretti. Lasciati da soli, in un’immensa solitudine e sconsolatezza. Quella che metteva una croce sopra a tutto quello che era stato preparato dai parenti del defunto.
Il silenzio assordante del pomeriggio che si sentiva con mano nel cimitero, era praticamente “l’Altrove”. Quello che c’è dopo lo chiamo così, Altrove. Altri termini mi mettono inquietudine: già si soffre sulla terra e non vorrei avere un altrettanto trattamento “idilliaco” anche dopo, sarebbe troppo. Una morte annunciata era quasi la norma, tanti anni fa, quando un famigliare ammalato da tempo, era soggetto ad una lunga agonia, senza un minimo di speranze farmacologiche.
E ci si preparava al peggio. E si immaginava come sarebbe stato quel “peggio”. Si iniziava a piangere già prima. E poi succedeva quello che doveva succedere. L’ingresso di quell’abitazione veniva letteralmente addobbato di nero. Un nero che non lasciava dubbi: lì dentro c’era una persona che era defunta da poche ore. O al massimo da un giorno: il feretro lo si teneva in casa almeno per 24 ore, uno strazio senza fine per tutti i parenti. Lo si ammirava, nel vero senso della parola, ogni tanto si andava a toccargli il viso e le mani. Si raccontavano della persona che non c’era più, tutte le virtù: una litania giusta, senza dubbio vera, non si poteva mentire davanti al corpo senza vita di una persona che era morta da poco.
Anche i piccoli di quella famiglia non erano esclusi da quel rito, dell’osservazione del caro parente che era defunto, difficilmente venivano allontanati e portati in altre abitazioni. E se veniva fatto, era per poche ore. Oltre un giorno di contemplazione, un viaggio cerebrale, con la mente che cercava con tutte le sue forze, di ricordare il più possibile tutto quello che di bello c’era stato tra il defunto e noi: le sue carezze, le passeggiate, i baci, le raccomandazioni; era una trasmissione orale di tutto quello che possa offrire la vita.
Si cercava di riposare, come meglio si poteva, ma non si poteva andare a dormire, nel modo più assoluto: i parenti stretti dovevano vegliare nel vero senso della parola, il feretro; non era permesso allontanarsi. Intanto in quella abitazione, le vicine di casa, iniziavano a fare visita al defunto, e subito dopo si recitava il Rosario. Era l’inizio della nuova vita che aspettava il defunto Altrove. Sembravano litanie, preghiere che lasciavano parole stampate su quei muri, che si sarebbero staccate dopo un po’ di tempo.
Quando si pregava per un defunto, lo si faceva in modo diverso dalle altre occasioni: c’era uno strascico di malinconia, di presenza di una persona ormai assente. Ci si fermava spesso, durante quelle preghiere, si capiva che non era una recita, ma qualcosa di diverso; erano le ultime preghiere che avrebbero convinto dio ad avere pietà per quella persona. Parole disperate, spinte da voci impastate da pietà e misericordia.
Poi, arrivava il momento della partenza. Il feretro veniva trasferito dalla casa dove aveva dimorato fino a poche ore prima, fino al cimitero. Ed era il momento più agghiacciante di tutta questa vicenda: le voci di disperazione arrivavano dove potevano, erano come lance conficcate dentro il costato di tanti cristi non ancora morti. Le mani delle donne che si aggrappavano ai capelli, cercavano di strapparseli, e poi con qualche ciuffo di capelli tra le mani, si asciugavano gli occhi.
Quella che si sentiva, sembrava una sinfonia mai ascoltata prima: nessuna mente eccelsa nella musica, poteva creare tale composizione sacra. La sacralità veniva espressa anche in quel modo. Donne e uomini che con i loro lamenti e pianti, componevano straordinarie “Stabat Mater” mai ascoltate prima. Uno strazio simile a quello vissuto dalla Madonna ai piedi della croce.
Il corteo funebre, dopo, poteva iniziare il suo percorso di dolore. La processione funebre era composta dal prete della parrocchia, dai chierichetti di ogni parrocchia, dalle suore, decine di corone grandi di fiori, e anche da piccole (“li cuscenedd”). Tutti i partecipanti avevano una candela in mano, che non si doveva rompere, altrimenti ai chierichetti la “paga” veniva dimezzata. Lungo il percorso, le persone che assistevano al corteo funebre, si fermavano; gli uomini si toglievano il cappello e i negozi abbassavano le saracinesche.
Il nome del defunto lo si conosceva: i manifesti funebri rendevano noto tale evento, e molti commentavano quella dipartita. Dai balconi si affacciavano tutti quelli che abitavano in quelle case, anche perché le campane di tutte le chiese, man mano che il corteo funebre avanzava, suonavano “a morto”: deboli rintocchi della campana più grande, intervallati da quella più piccola. Era quasi un obbligo partecipare anche per pochi secondi a quel lutto.
Le donne non partecipavano al corteo funebre, rimanevano in casa, e se per caso il feretro ripassasse davanti a quella abitazione, le donne lo salutavano di nuovo, così come era stato fatto in precedenza: lamenti e lacrime senza fine. Si giungeva “a mez lu chian”, per le condoglianze ai parenti del defunto: una vergogna senza fine. Gente appostata dietro i pullman della SITA e dietro la biglietteria, improvvisamente balzavano davanti al feretro per dare le condoglianze, addolorati. Così almeno volevano far credere quando si dava “la mano al morto”.
Verso il cimitero. Era la parte più dolorosa di tutta la vicenda, si rimaneva da soli: i parenti stretti, una decina, si avviavano verso il camposanto per poi lasciare la salma nel deposito. Dove, il giorno dopo, sarebbe stata ripresa per essere tumulata. Questo percorso era quello che somigliava ad una Via Crucis terrena, ogni passo fatto era una replica della vera Via Crucis: le cadute della persona defunta, le frustate subite in modo ingiusto, gli incontri fatti con gente che l’ha aiutata, le ultime ore della sua vita, i giudizi della gente, e tutto quello che un cristo sulla terra poteva subire e vivere.
La tumulazione. Avveniva il giorno dopo, c’era un’atmosfera meno tesa e più remissiva: tutto era ormai compiuto. Si pensava al giorno dopo su come fare per andare avanti, sapendo che quelle mani ormai non più vive, non ci avrebbero più aiutato. Era una Resurrezione dello spirito del defunto, il corpo non lo si poteva avere indietro. Solo con il pensiero si cercava ancora quella voce e quei passi che stavano per entrare in casa: ognuno di noi ha un passo diverso. E quel rumore, di quei passi, non ci sarebbe più stato…
Fermiamoci qui…
Soundtrack: “Tears in Heaven” – Eric Clapton
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Mario Ciro CIAVARELLA AURELIO