Non c’è bisogno di attendere anniversari o compleanni per ricordare Francesco Paolo Borazio, testata d’angolo di un grande edificio da lui stesso edificato, quello della espressione letteraria in lingua nativa in chiave moderna, quando già il Toscano si era “affermato” per legge quale lingua prestigiosa della cultura, in salsa fascista ma non solo. A dispetto delle culture nazionali imposte, che prima o poi si denudano come falso zucchero di canna, Borazio predilige la sua lingua e si fa, a suo modo, felice precursore della poesia “neodialettale”, quella che si divincola dagli afflati nostalgici-bozzettistici per farsi foriera di emozioni universalmente apprezzabili.
La mia, però, è anche e soprattutto venerazione, affascinato da questa luminosa figura, stella polare che segna il cuore di un’intera tradizione: Borazio si respira rileggendo tanta produzione, a partire dal più fortunato Tusiani, che da lui attinge tutta la linfa almeno iniziale. Se chiedessimo alle nostre penne: “a cchi appartine?”, quelle risponderebbero: “lu millessacciquanta… li tataranne delli tatarosse… mbile mbile cu llu sole”.
Probabilmente suonerà improprio ritenere che tutto possa ricondursi a Borazio, che Borazio sia il pater, “lu tatarósse”, per via della presenza di altri riferimenti autorevoli anche più colti e prolifici. Ma non si può non constatare il compimento di una profezia, annunciata dai curatori de La prèta favedda nella vertenza al volume, dove essi scrivono: “Le edizioni de Lu trajone e La prèta favedda, avendo come primo scopo quello di rendere disponibili i testi fondamentali di Borazio, se non ambiscono a fondare una tradizione, possono forse aspirare ad aprire un varco per un ruolo di genuina espressione popolare”. Una premonizione, allora, nemmeno troppo coraggiosa, che aveva forse il sapore di un “potrebbe succedere”. E invece Borazio ha proprio fondato una tradizione, e quella che si respira è profezia compiuta, che anzi continua a compiersi.
Poi certo – come sembra fin troppo umano – si preferisce attendere prudentemente la morte per riconoscere i giusti meriti. In realtà questa si chiama codardia. Di solito, certi intellettuali, che dovrebbero saper riconoscere i talenti (degli altri), o mancano di “gabbasisi” (non hanno il coraggio di rischiare scommettendo su nuovi nomi, riconoscendo, sostenendo onestamente) o temono di perdere solitarie posizioni dominanti. E poi si accodano ai più per tessere le lodi di nomi triti e ritriti, senza alcun pericolo di imbarazzanti contestazioni. Ne è pieno il mondo.
Chi avrebbe dovuto immediatamente riconoscere il talento di Borazio (per giunta cavapietre, imbianchino, “senzascòla”, autodidatta, che scrive appunti ambiziosi sulla carta del pesce, su quaderni di fortuna)? Chi sa intuire il novum? Non certo gli “intellettualotti di provincia”, quelli cioè che non osano portare il naso oltre i propri confini per respirare un’aria meno autoreferenziale ma più ampia e assai utile per inquadrare e comprendere il proprium. Per Borazio sarebbe dovuta passare almeno una generazione: il tempo garantisce quel distacco oggettivo che fa emergere le particolarità. Continuerà a passare, il tempo, e Borazio sarà sempre più autorevolmente ripreso, come oggettivamente si conviene.
Con questo spirito, nel dicembre 2012 ho promosso con la Putèca un “incontro sull’autore”, per rinfrescare continuamente una memoria collettiva cui a tratti piace opacizzarsi. Evito, poi, di lanciare proposte bislacche, come quella di un bronzo o della sistemazione più confacente delle spoglie mortali, quantomeno per non sentirmi rispondere che non vi sono ora possibilità di spesa. Passerà qualche altra generazione. La sua bellezza non si opacizzerà, anzi. La bellezza, infatti, non solo salverà il mondo, non solo finisce per assumere respiro universale, ma è finanche eterna.
Luigi Ianzano