Il gip Marco Galesi ripercorre le tappe della faida, la più sanguinosa che si sia mai verificata in provincia di Foggia.
Nelle 50 pagine sull’ordinanza che ha portato all’arresto di Giovanni Caterino, il 38enne di Manfredonia ritenuto tra gli autori della strage del 9 agosto 2017 a San Marco in Lamis, il gip Marco Galesi ripercorre le tappe della faida garganica, la più sanguinosa che si sia mai verificata in provincia di Foggia e che ha radici ben lontane, riguardanti alcuni litigi tra allevatori a fine anni ’70.
“La vicenda in esame – scrive il giudice in riferimento al quadruplice omicidio di San Marco in Lamis – deve essere inquadrata, da un punto di vista storico, in linea di continuità rispetto alla faida garganica, scatenatasi ormai da lunghi anni. Dopo la sentenza resa nel 2006 nell’ambito del procedimento “Iscaro-Saburo” — che riconobbe per la prima volta la sussistenza del fenomeno mafioso in territorio garganico — esplose sul promontorio una feroce guerra di mafia tra gli esponenti del clan Li Bergolis e i militanti della fazione facente capo ai Romito, avente come epicentro le aree di Monte Sant’Angelo e Manfredonia, durante la quale si registrò un copioso numero di morti tra entrambi i gruppi.
La spaccatura all’interno del clan dei “montanari”, avvenne proprio all’esito del processo “Iscaro-Saburo”, nel cui ambito furono accertati episodi di collateralismo tra alcuni operatori di polizia giudiziaria ed esponenti della famiglia Romito. Nell’ambito delle varie fasi del processo emerse che i fratelli Romito — ossia Franco (poi ucciso il 21/04/2009), Mario Luciano (vittima dell’omicidio per cui si procede) e Michele Antonio — negli anni 2001-2004 avevano intessuto rapporti con taluni militari dell’Arma dei Carabinieri, in qualità di loro “confidenti”, a discapito dei sodali del gruppo Li Bergolis. Tale circostanza, a seguito della discovery degli atti processuali, pregiudicò irreparabilmente il rapporto di alleanza tra i due gruppi, con conseguente scissione e inizio di una vera e propria resa dei conti, avviata con il ritorno in libertà degli elementi apicali del gruppo Li Bergolis, protesa all’eliminazione fisica dei “traditori” e alla ridefinizione degli assetti ed equilibri in seno alla criminalità organizzata garganica”.
La resa dei conti
Per meglio comprendere la ferocia dei due gruppi criminali, il gip elenca gli episodi più atroci avvenuti nel Foggiano e relativi alla guerra tra i due clan. Eccoli di seguito.
“In data 21/04/2009, in località Siponto, a Manfredonia, vennero uccisi con numerosi colpi d’arma da fuoco, esplosi da almeno tre armi diverse (un fucile cal. 12 a pallettoni, un’arma semi-automatica cal. 7,62 ed una pistola cal. 9×21) il pregiudicato Franco Romito e il suo autista Giuseppe Trotta. I due furono sorpresi dal commando mentra viaggiavano a bordo di un’autovettura Chrysler. II volto di Franco Romito venne sfigurato con un colpo esploso a bruciapelo, segno inequivocabile del proposito vendicativo degli autori-mandanti dell’omicidio, plausibilmente maturato proprio quale punizione per la collaborazione che egli aveva prestato in favore di appartenenti alle forze dell’ordine, così come emerso nel processo “Iscaro-Saburo”.
In risposta all’omicidio di Franco Romito, il 23/05/2009, a Manfredonia, venne attinto mortalmente da quattro colpi d’arma da fuoco il pregiudicato Andrea Barbarino che, nel processo “Iscaro-Saburo” era imputato (poi assolto), in concorso con Matteo Lombardi classe 1961 detto “Lombardone” (condannato), per l’omicidio di Michele Santoro detto “Mangiafave”, commesso il 23/09/2003a Manfredonia, in località Siponto. Barbarino— già vittima con Santoro di un primo attentato, subito a Manfredonia in data 02/10/2000, che lo aveva definitivamente immobilizzato su una sedia a rotelle, per effetto delle gravissime lesioni subite — scampò a un successivo agguato in data 01/08/2003.
Il 18/09/2009, a Manfredonia, esplose un ordigno, precedentemente occultato nella parte anteriore dell’autovettura Audi condotta da Ivan Romito, con a bordo il sorvegliato speciale di P.S. Mario Luciano Romito, entrambi fratelli del defunto Franco Romito. Rimasero illesi.
Il 26/10/2009, a Monte Sant’Angelo, Francesco Li Bergolis detto “Ciccillo u’ calcarulo”, allevatore, considerato storico elemento apicale dell’omonimo clan, mentre era intento ad aggiungere acqua al radiatore della sua autovettura, fu attinto da una fucilata e da alcuni colpi di pistola che ne cagionarono la morte immediata (in alto il luogo dell’agguato). L’omicidio apparì come risposta al fallito attentato ai danni dei fratelli Mario Luciano ed Ivan Romito, costituendo un ulteriore manifestazione dell’ostilità in atto tra le famiglie.
Il 27/06/2010, a Manfredonia, ignoti esplosero numerosi colpi d’arma da fuoco all’indirizzo dell’autovettura condotta da Michele Romito, (figlio di Franco Romito, in precedenza assassinato) e con a bordo suo zio Mario Luciano Romito. Nell’occasione Michele Romito fu attinto mortalmente mentre Mario Luciano Romito, pur ferito, riuscì ancora una volta a mettersi in salvo.
Successivamente a tale fatto di sangue, il 30/06/2010, a Manfredonia, due individui travisati e armali esplosero tre colpi di fucile cal.12, all’indirizzo di Leonardo Clemente, cugino del latitante Franco Li Bergolis, attingendolo mortalmente”.
Le maxi operazioni e l’alleanza coi foggiani
Le operazioni “Blauer”, “Rinascimento” ed “Età Moderna” riuscirono a porre un freno alla sanguinosa guerra di mafia in atto, con la cattura dei latitanti Franco Li Bergolis e Giuseppe Pacilli detto Peppe u’ montanar, entrambi esponenti di vertice del clan Li Bergolis (inseriti nella lista ministeriale dei primi 30 ricercati di maggior spessore criminale) e col de-potenziamento dei due clan contrapposti con arresti e condanne (per reati in materia di estorsione e favoreggiamento, con l’aggravante di mafia) di numersi affiliati, tra cui Emiliano Francavilla (esponente di vertice della batteria foggiana Sinesi-Francavilla, alleata dei Li Bergolis) e Enzo Miucci (assurto al vertice del clan Li Bergolis, dopo le catture di Franco Li Bergolis e Giuseppe Pacilli).
In particolare l’operazione “Blauer”, culminata con la cattura del latitante Franco Li Bergolis, mise in evidenza l’ininterrotta operatività criminale dell’omonimo clan, la riferibilità dei ripetuti agguati omicidiari del periodo 2009-2010 al conflitto tra i due clan e i collegamenti strategici esistenti tra la mafia garganica e la mafia foggiana, sanciti con l’alleanza intercorsa tra Li Bergolis e Sinesi-Francavilla ritenuta la più importante articolazione della “Società Foggiana”.
L’arresto di Giuseppe Pacilli
Stando al giudice, “è quindi possibile ritenere, più nello specifico, che la vicenda in esame (la strage di San Marco, ndr) si inquadri a pieno titolo nella rivalità esistente all’interno della malavita organizzata garganica, tenuto conto della personalità della vittima Mario Luciano Romito e delle chiare affermazioni fatte a più riprese dai soggetti intercettati nel corso delle indagini. Come detto, negli anni passati Mario Luciano Romito riuscì a scampare ad altri precedenti attentati — uno dei quali realizzato nel più tipico stile “mafioso”, mediante esplosione di un ordigno piazzato sulla sua autovettura — evidentemente perché da tempo nel mirino della fazione contrapposta, facente capo ai Li Bergolis a causa della sua collaborazione con gli inquirenti (collaborazione che, in concreto, aveva avuto l’effetto di cagionare un netto depotenziamento del clan Li Bergolis, a favore di un temporaneo rafforzamento sul territorio delle attività criminali gestite dagli stessi Romito). In tale contesto si comprende bene quindi come, secondo un “copione” già visto in passato, la morte di Mario Luciano Romito ad agosto del 2017, abbia poi evidentemente scatenato la reazione della fazione criminale di riferimento, manifestatasi attraverso il tentativo di omicidio realizzato a febbraio del 2018 ai danni di Giovanni Caterino, “reo” agli occhi dei Romito di aver partecipato all’agguato del 9 agosto 2017.
L’omicidio di Mario Luciano Romito ricostruito dal Corriere della Sera
Altrettanto chiare sono le numerose conversazioni, in cui Caterino commentò l’accaduto, riferendo chiaramente la paternità del tentativo omicidiario di cui era stato vittima proprio ai Romito e meditando a sua volta di reagire in maniera violenta, concentrando in particolare le sue “attenzioni” sulla figura di Pasquale Ricucci che Caterino ascrive al gruppo del Romito e che divenne la vittima designata delle sue intenzioni di ritorsione.
A dimostrazione del chiaro inserimento di tutta la vicenda in un contesto di criminalità organizzata vi è poi la considerazione dell’impossibilità per Caterino di assumere iniziative autonome: la sua volontà di immediata ritorsione si scontrò con i dettami degli altri sodali, i quali non diedero il via libera per l’azione ritorsiva da lui meditata ma gli imposero di stare fermo, mantenere la calma e prestare attenzione”.
Le conclusioni del giudice
“A tutto ciò – conclude il gip –, deve poi aggiungersi la considerazione relativa alle modalità plateali di realizzazione dell’episodio delittuoso che costituisce l’oggetto principale dell’indagine, consistito in un agguato armato pianificato nel dettaglio e portato a termine in maniera particolarmente allarmante ed eclatante da parte di un commando, composto da almeno tre persone (con ogni probabilità Giovanni Caterino, Saverio Tucci e altro soggetto al momento ignoto), che utilizzarono armi da fuoco dalla notevole potenzialità offensiva e che, a omicidio già avvenuto, esplosero devastanti colpi al capo di Mario Luciano Romito con modalità chiaramente evocative di quelle adoperate dagli appartenenti a consorterie di tipo mafioso; i killer non esitarono a realizzare la loro spietata esecuzione anche in danno di altre due persone, ossia i fratelli Luigi a Aurelio Luciani, risultati del tutto estranei a ogni logica criminale e che quindi, con ogni probabilità vennero uccisi dai killer solo perchè involontariamente testimoni di quanto era casualmente accaduto dinanzi ai loro occhi”. (Francesco PESANTE – immediato.net)