Sembravano pesare, quei piccoli gettoni telefonici che si tenevano in mano. E li facevamo saltellare da una mano all’altra, in attesa. Come quando si batte un tamburo per tenere il ritmo. I gettoni cadevano uno sull’altro con un rumore che poteva essere di minaccia o di sollievo: dipendeva da quello che si doveva dire per telefono all’altra persona che aspettava la nostra telefonata all’altro capo del telefono.
I gettoni telefonici non erano delle monete vere e proprie, anche se spesso venivano scambiate con 200 lire: un gettone valeva quella cifra. Erano di un colore ramato, che somigliava ad un rosso-bordeaux come tonalità. E in mezzo avevano un taglio netto che li separava in due.
Non erano belli da vedere, i gettoni, ma molto importanti quando si doveva comunicare telefonicamente con qualcuno. Soprattutto in tempi, quando non tutti in casa avevano l’apparecchio telefonico. Quello grigio, imponente, che sembrava ti guardasse giusto negli occhi, con la sua indifferenza. Si usciva di casa per telefonare, era una delle incombenze da fare quasi quotidianamente. Come quando si mangia o si esce per fare la spesa.
Spesso il nostro interlocutore sapeva anche l’ora della telefonata, e aspettava lo squillo del telefono. E quando il telefono non squillava, iniziavano i dubbi. Poi si sapeva che quella telefonata non era arrivata a quell’ora, poiché le cabine telefoniche erano tutte occupate, e quindi si è dovuto aspettare per chiamare.
La fila. La fila ad una cabina telefonica era quasi un rito: già si sapeva che bisognava aspettare, anche se per pochi minuti. Dipendeva quando arrivasse il nostro turno. E quando si aspettava, si pensava. Si ripetevano parole e concetti da dire a colui/colei che ci attendeva dall’altra parte. Difficilmente si improvvisava: le telefonate “programmate” erano già stampate nella nostra mente. Nulla era improvvisato come testo, il tutto doveva coincidere con la realtà da raccontare: era come se un cantastorie dovesse rappresentare un evento soltanto con le parole, senza l’ausilio di disegni. E non era facile far capire all’uditore telefonico quello che non vivevamo in quel momento, ma era un vissuto passato da descrivere. Non sempre era facile.
Le descrizioni telefoniche erano quelle più difficili da “rappresentare”: colui che ascoltava le nostre parole dalla cornetta del telefono, non vedeva il nostro viso, né le nostre mani agitarsi e nemmeno un misero disegno o foto. Bisognava essere bravi a farsi ascoltare ed emozionare. Altrimenti si ripetevano all’infinito frasi come: “Come stai?” “Quando vieni?” “Le foto ti sono arrivate?” “Quando mi telefoni la prossima volta?” E altri modi di dire che nulla aggiungono alle nostre vite.
I numeri telefonici da ricordare erano pochissimi: massimo tre o quattro, non come adesso che abbiamo decine di numeri memorizzati nella rubrica del telefonino. Le telefonate lunghe erano quelle che si facevano i fidanzati; quando qualcuno “addummurava”, dentro quella cabina telefonica c’era un giovane che voleva bene ad un’altra persona con la quale stava parlando per telefono. Si andava ad una cabina telefonica per chiamare una radio locale per poter dire in diretta: “Pronto Radio San Marco?” “No, questa è Radio Elle”. “E famm nu favor: passem a Radio San Marco…” succedeva anche questo.
Finalmente arrivava il nostro turno: siamo dentro la cabina!! Ci chiudiamo per non far ascoltare le nostre parole a quello che sta spettando fuori dalla cabina, a pochi centimetri da noi. Cade il primo gettone, e si inizia a parlare. Ad intervalli già sperimentati, sappiamo che ogni 20-30 secondi dobbiamo far cadere un altro gettone dentro al telefono, altrimenti la linea cade. E così cade anche il secondo gettone, e si continua a parlare e a descrivere un passato molto recente al nostro amico che sta all’altro capo del telefono.
Anche il terzo gettone è caduto, così come il quarto… fino a quando finisce la telefonata. Tra il primo gettone e l’ultimo, c’era un mondo di parole, che nasceva e moriva dentro quella cabina. Sembrava di vivere fuori dal tempo, come se fossimo stati sparati in un’altra dimensione, dove vivono solo le frasi inviate dentro un cavo telefonico, ma non i volti. Le telefonate avevano delle vite e delle durate che erano stabilite dalla Necessità: ogni telefonata era “a tema”.
Erano racconti veri, non si riusciva a mentire stando chiusi lì dentro. E non conveniva mentire: saremmo stati scoperti da gente che conosceva le nostre vite e avrebbe riferito la verità!! Quella cabina era una specie di macchina della verità, non si riusciva a mentire anche perché il solo modo di parlare, le pause, poteva far capire se ci fosse qualcosa che non andava.
A volte si parlava con una famiglia intera!! E non solo con una persona, c’era la frase di rito: “Aspetta che ti passo Michele”, e dopo aver parlato anche con Michele, “Non chiudere che Antonio ti vuole dire una cosa”, e anche Antonio aveva una cosa da dire. “Luisa ti deve chiedere di portargli un regalo, e anche Luisa parlava e chiedeva. E dopo che tutti i famigliari avevano partecipato alla telefonata, si poteva agganciare la cornetta del telefono. Sentire solo la voce: spesso le mamme questo volevano dai loro figli che stavano lontano, “almeno la voce”. Come se la placenta che non c’era più da tempo, si riattaccasse per qualche istante.
E tutti quelli che aspettavano fuori dalla cabina telefonica tiravano un sospiro di sollievo, quando la cornetta veniva appoggiata sull’apparecchio: “E finalmente ha finito i gettoni”. E così via per decenni. Dalle cabine telefoniche vennero letti anche i comunicati dei terroristi degli anni ’70 e ’80, attraverso i quali dicevano cosa volevano, altrimenti avrebbero ucciso i prigionieri. Ma questa è un’altra storia. Una storia fatta di rantoli, sospiri, nodi alla gola e tutto ciò che in una telefonata cosiddetta normale non può esserci.
“Ecco, non posso stare molto al telefono… comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro… Via Caetani. È una strada di Roma…”
Soundtrack: “Fotoromanza” – Gianna Nannini
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Mario Ciro CIAVARELLA AURELIO