Nonostante avessimo quasi la stessa età, con Guido ci frequentammo durante l’adolescenza, quando io e lui frequentavamo il Ginnasio. Così si chiamava allora il primo biennio del Liceo Classico “Giannone”, a San Marco in Lamis. Prima non fu possibile, perché lui per via di una classe avanti, aveva compagni diversi alle Elementari. Per di più abitava al quartiere Piazza ed aveva i coetanei della strada con cui giocare.
Altrettanto facevo io col vicinato della mia età alle “Mura” Allora il borgo antico era intensamente abitato, sia come numero di nuclei familiari, sia per la quantità dei suoi componenti, che mediamente si aggiravano sui cinque figli a famiglia. Per cui fanciulli e ragazzi di ambo i sessi se ne contavano a iosa in ogni singola strada ed era esclusa ogni possibilità di annoiarsi. I nostri giochi preferiti erano: la campana, “lu mazzaridde” (una mazza con la quale si colpiva un pezzo di legno più corto, lanciandolo il più lontano possibile), accoppa accoppa (a cavalcioni), l’oca, gioco a carte, taccarello (fazzoletto a doppio nodo, con il quale si colpiva l’avversario), la carrozza con i cuscinetti, duelli con spade di legno, nascondiglio, ecc. Spesso a bande ci affrontavamo con i rivali di altri quartieri.
Fu durante un approccio simile, che conobbi per la prima volta Guido che mi fu subito simpatico. Ripresi l’amicizia, quando ritornato dal collegio e conseguito la licenza media da privatista, ci rivedemmo a San Marco: io, a frequentare la IV ginnasiale, lui, la V. Di solito ero io ad andare a casa sua. Egli abitava in una affollata traversa della piazza, al secondo piano. Qui c’era una micro – libreria, dove c’erano alcuni testi, per lo più riguardanti le cosiddette scienze occulte e magia (provenienti dall’antico proprietario), altri racconti in genere. Tappati dentro, ci provammo a leggere per primo quello di magia e scoprimmo i vari filtri ‘miracolosi’. Per esempio, come fare innamorare le ragazze, ma subito abbandonammo la nostra ricerca, in quanto troppo complicata e i componenti di essi assai difficili da reperire.
Solo un libro ci colpì a prima lettura. S’intitolava “Le confidenze di Marisa e Lola”. Lo leggemmo a più riprese sino alla noia (per modo di dire). Di esso assaporavamo sesso a buon mercato, scoprendo ad uno ad uno tutti i segreti dell’amore fisico. La piacevole lettura proseguì parecchi mesi. Dopo passammo il testo anche ai nostri compagni Ad uno di essi capitò di essere sorpreso da un genitore che era assai religioso. Il libro fu immediatamente strappato e bruciato e il compagno, seduta stante, malmenato a più non posso. Per nascondere i lividi, disertò la scuola per due settimane. Il papà del mio amico fisso, dal canto suo, era molto previdente e, accorgendosi che ormai eravamo cresciuti abbastanza per provare le dolcezze delle prime vampate d’amore, pensò bene di rimediarci un giradischi. Lo fece da perfetto conoscitore, mettendo assieme pezzi vari in disuso, rilevati da radio, vecchi grammofoni e altoparlanti. Fu un successo. Il congegno funzionò a primo acchito.
Ci mettemmo prima i dischi da ballo (tango, polca, mazurka, valzer e fox trot) a 75 giri e successivamente quelli a 45, che trasmettevano ballabili più moderni, come slow, calipso, cha cha cha, e successivamente il rock americano, ecc. Le ragazze, quasi tutte giovanissime, specie le forestiere (ne ricordo una che era bellissima e sexy) ci venivano volentieri al nostro ‘pensatoio’ (così chiamavamo la stanza preferita, ossia luogo di studio-pensiero e da ‘ballo’) e col pretesto di imparare il ballo, ci stringevamo e scambiavamo qualche bacio furtivo. Il giradischi di Guido restò ‘sommo’ nel servizio anche quando andò in voga quello mobile a valigetta. Tanto, da essere utilizzato più tardi anche nei comizi politici. Si continuò così anche negli anni a venire.
Di me e lui ricordo una ‘marinata a scuola’ che restò stampata nella memoria. Capitò sempre durante le ginnasiali. Non furono tanto le difficoltà scolastiche ad ispirarci, quanto l’amor di femmina. A quel tempo erano poche le donne che frequentavano le Superiori, specie se povere. Quindi, il ripiego di tante belle ragazze era il lavoro di sarta o ricamatrice e quello stagionale nelle campagne. Saputo che alcune nostre ‘appetite conoscenze’ si trovavano al seguito dei loro genitori a raccogliere olive ai piedi della montagna, decidemmo una mattina di andarle a trovare sul posto, marinando la scuola. E così fu. Ci dirigemmo verso porta San Severo e ci avviammo a piedi, decisi a percorrere la SS.272, meglio nota come Via Sacra. Dopo qualche chilometro ci prese in carico un Leoncino (piccolo camion), facendoci scendere nelle vicinanze di San Marco Scalo. Dopo di che abbordammo la pedegarganica, sospinti dalla bora e dall’acqua ‘ventata’.
Dopo qualche chilometro, non ce la facevamo più a proseguire (ossia a raggiungere il podere dei nonni del mio amico, a Mezzanagrande). Così ci fermammo alla prima masseria, immersa in un frutteto, per riposarci un poco. Qui ci accolsero con calore i nostri compaesani, mentre al camino stava scoppiettando il fuoco per il caglio. La padrona di casa allungò dentro il mestolo e ci servì una scodella di legno, ben piena del fumante alimento. Lo bevemmo di colpo e ci sentimmo subito in forza. Dopo di che proseguimmo il cammino sino al podere. Da qui, dopo aver pranzato, ci dirigemmo alla montagna, dove si stavano raccogliendo le olive. C’era una grande masseria. Ci sistemammo ed aspettammo il rientro delle nostre ‘lavoratrici’. Ovviamente le giovanissime. Ci accolsero tutte con calore, come se non vedessero maschi chissà da quanto tempo, con abbracci e sbaciucchiamenti vari. “Restate qui, stasera si balla!” – ci dissero in coro. E così fu. Dopo aver mangiato a sbafo ci demmo alle danze sino a quando presi dal sonno, cascammo letteralmente sui sacconi. Bis la sera successiva.
Nessuno di noi si azzardava a parlare di scuola, tanto meno di genitori. Eravamo felici, come se vivessimo in un altro mondo. Al rientro della terza sera tutto cambiò. Grandi e piccoli, nessuno della comitiva ci degnò di uno sguardo o di una parola. Ai nostri perché, solo silenzi e musi lunghi. Come se non ci avessero mai conosciuti. Rimanemmo impietriti, per alcuni minuti. Quindi, seduta stante, prendemmo di corsa la via del ritorno, abbordando la ripida salita che portava in paese, evitando però la petrosa mulattiera che a zig zag segnava il versante della collina. Lassù solo case bianche. Pareva che dovessero rotolare giù da un momento all’altro. Io andavo avanti, l’amico mi seguiva a distanza. Per cui di tanto in tanto ero costretto a girarmi dietro, per assicurarmi che ci fosse. Ad un tratto non lo vidi più. Chiamai a voce alta: “Guido…Guido, dove ti sei ficcato!?”. E lui, con un sospiro lamentoso rispondeva: “Sto qui, sto qui…Non mi vedi? Mi precipitai subito in direzione della voce e ad una decina di metri più giù lo trovai disteso sul suo cappotto per terra, tutto deciso a riposarsi e a dormire a lungo.
Lo rimproverai. “Dobbiamo raggiungere il paese quanto prima, per tranquillizzare i nostri genitori che di certo sono molto preoccupati per la nostra lunga assenza. E poi la scuola? – aggiunse con stizza – di certo ci boccerà?”. Egli si rimise il cappotto di stoffa assai doppia e pesante (era un rifatto del pastrano paterno, tant’è che egli stesso l’aveva soprannominato il quintale) e riprese il cammino, seguendo, sempre a distanza, le mie orme. La mia mente intanto rimuginava sul perché le ragazze ci avessero evitato poco prima. Forse non siamo piaciuti a loro? Chissà! Solo a fine campagna, sapemmo il vero perché. Zurro, il capo manipolo della variopinta comitiva delle raccoglitrici, infatti, un po’ per invidia – gelosia, un po’ a ragione, aveva tenuto in pugno le stesse per tutto il giorno, irridendo sulla nostra inesperienza ed ingenuità. Al contrario aveva vantato le sue doti di incallito conquistatore, nonostante avesse il naso grosso e il viso non bello, aggiungendovi di tanto in tanto le bontà e le bravure dei suoi compagni, sicuramente più belli di lui.
Così arrivammo a Capolumonte. Era l’una di notte. Ce ne accorgemmo dai rintocchi scanditi dal grande orologio pubblico affisso sul fronte del vecchio Municipio. Alle prime case ci separammo. Lui tornò in piazza, io alle mura. Qui i genitori (dell’amico seppi dopo) ci accolsero con sotteso sollievo. Il giorno successivo fummo accompagnati dagli stessi a scuola, tra rimbrotti e qualche parola di troppo, accontentandosi del nostro “Non lo faremo più!” (prof. Francesco GISOLFI)