Nonostante la nuvolosità in atto e qualche possibile piovasco che potrebbe venire giù da un momento all’altro, la gente scende giù decisa, in auto o a piedi, lungo la collina. Lo fa da secoli e secoli per raggiungere la sua meta preferita, ossia il piccolo Santuario della Madonna di Cristo, ubicato sul ciglio del primo gradone garganico, ai piedi del paese.
Come negli anni scorsi, si farà per devozione, partecipando alla Santa Messa e alla Processione all’aperto con la statua in testa e nel contempo per trascorrere una giornata all’aperta tra le erbe verdi e gli odori della primavera in fiore. È questa la ‘pasquetta’ locale, che cade il Martedì in Albis, di ogni anno.
L’usanza ha origine antichissima. Infatti, dal punto di vista storico e documentale, si fa cenno al 1176, allorché il bene asburgico (fuori del proprio dominio prevalente) risulta possesso del Convento benedettino di San Giovanni in Lamis (attuale San Matteo), ma la tradizione riporta ancora più indietro e diventa una leggenda che si perde nella notte dei tempi.
Ecco quanto racconta in proposito lo scrittore ottocentesco Giulio Ricci nel suo romanzo “Rosedda” (1). «La processione, fu deciso, doversi fare subito innanzi le verginelle vestite di bianco, con le chiome sciolte ed infiorate di rosolacci vermigli, poi la beata Caterina, sola, col campanellino di argento; in ultimo il capitolo con gli abiti filettati di oro e la popolazione di Rignano, Sammarco e San Giovanni scalza; le vesti più lacere ed i cilizii alla vita. Si scelse una mattinata bella piena di sole, di canti di uccelli, di odori di erbe e la strada più brutta, ove i sassi taglienti facevano sanguinare i piedi e i rovi fitti giganteschi laceravano orribilmente le carni. Così si camminava. La beata Caterina con gli occhi pieni di lacrime e le mani convulse, in testa, intuonando il rosario e le canzoncine, dietro, il popolo rispondendo in una sola voce…Allelu…uia, ora pro nobis. A metà costa fu visto uno stuolo di colombi bianchi come la neve, il quale si alzò nel cielo, roteò tre volte sul capo della turba e si disperse in una grotta nereggiante cupamente in cima ad una collina. Avremo la grazia, gridò la beta Caterina e: sia lodatu ogni momentu / lu santissimu sacramentu, continuò canticchiando con entusiasmo. Essa passava per la donna più santa del villaggio, la più immacolata; era essa che andava in secula e vedeva in sogno e parlava con i santi del paradiso e con i morti delle calle comari; a lei come alla sacerdotessa antica sui tripodi fiammanti, era dato di scongiurare gli spiriti maligni di evocare la madre di Cristo ed il Padreterno. Giunti nella valle si fermò e con un gesto imperioso di mano ordinò alla turba di prostrarsi. – Ave Maria! Gridarono sordamente quelle migliaia di donne, con la bocca per terra e gli occhi in alto: Ave Maria! La beata Caterina si avvicinò alla grotta, si percosse tre volte le spalle nude col cilizio, si fece tre volte il segno della croce ed in mezzo al silenzio solenne della dritta sul limitare della spelonca urlò: – Esci, o Maria, i figli tuoi pentiti ed umiliati ti chiamano! risposero i sacerdoti. – Eccola! Eccola! Viene…vestita di bianco, proruppero le donne; eccola! Ave Maria…ave Maria! Su quella grotta si fabbricò la chiesa e così la madonna di Cristo ebbe la casa sua…»
N.B. (1) Racconto tratto dal romanzo verista di G. Ricci “Rosedda”, 1889: nuova edizione a cura di Antonio DEL VECCHIO, Regione Puglia, 2001, (pp. 51 – 52)