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Una donna, una storia: Benedetta Barzini

Pochi giorni fa guardando il programma televisivo “Stracult” su Raidue di Marco Giusti, venne annunciata come ospite una “certa” Benedetta Barzini. Entrò una donna “vecchia” (non è un’offesa). Durante l’intervista ho saputo che ha 75 anni. Ma ne dimostra molti di più (anche questa non è un’offesa). Mai vista. Una donna dello spettacolo mai vista prima.

La tentazione è stata quella di girare canale, ma poi la vidi molto “remissiva”, soprattutto stanca, con lo sguardo quasi sempre abbassato, senza guardare il viso dell’intervistatore. La situazione stava diventando interessante. Iniziò a dire qualcosa, disse quasi subito che non provava nessun piacere a stare lì a farsi intervistare, e soprattutto a farsi vedere!! Farsi vedere: negli ultimi tempi è semplicemente un obbligo. Basta stare zitti. E farsi vedere. E attendere migliaia di “mi piace” da altrettante persone: senza aver fatto nulla.

Benedetta Barzini. Un volto che “mette paura”. Di un’antichità che sta sfidando il tempo. Che non vuole essere ammirato. Poi capii che il suo attuale aspetto non aveva nulla a che vedere con la sua ritrosia a farsi guardare: è stanca del mondo!! Ma allora perché aveva accettato quell’invito in tv? Semplicemente per presentare il film di suo figlio, Beniamino Barrese, titolo: “La scomparsa di mia madre”.     

È un film che parla della ricerca di riappropriazione di un’immagine nella sua autenticità, sul tentativo di sottrarre un viso, un corpo, allo sguardo del sistema moda e alla sua rappresentazione convenzionale, per restituirlo ai momenti più ordinari, agli atteggiamenti meno glamour. Un film che mette un’enorme croce su quella che è stata la “vita precedente” di Benedetta Barzini: una top model a livello mondiale, negli anni ’60. La prima italiana ad occupare la copertina di “Vogue America” nel 1963: una parte della sua vita inutile. Come le si tessa dichiarò durante la trasmissione televisiva.  

La chiamarono per un soggiorno in America di 10 giorni, rimase 5 anni. Durante l’intervista non disse quasi nulla di quegli anni americani, e se qualcosa le scappò, disse quasi sottovoce che lavorò con Andy Warhol, Salvador Dalì, Irving Penn e Richard Avedon. Parlò invece molto della sua attività di femminista: all’apice del successo, molla tutto e si dedica alla lotta per i diritti delle donne al fianco dell’estrema sinistra italiana.

Qualcosa successe durante la sua carriera di modella: capì che l’immagine del mondo, del corpo umano, non c’era nulla di più falso!! Dopotutto viviamo di convenzioni che non si capisce da chi vennero dettate. Vacuità. Superficialità. Inutilità. Come gli sguardi di gente che ti squadra, seziona, cerca qualcosa che non riesce a trovare: il corpo di una modella è senza anima. Non serve. Non aggiunge nulla a ciò che l’occhio cerca: l’apparenza!

Si sentiva guardata. Usata e non apprezzata: non doveva fare quel mestiere. Infatti lasciò tutto, quando le sue certezze diventarono realtà. Una realtà americana ben diversa da quando, ancora giovane, faceva la cameriera in un bar di Roma, e la portarono in America. Il volto visto quella sera in tv, aveva in quei solchi, gli sguardi che la gente le proiettava addosso. Sguardi che lei non riesce a dimenticare: quasi una violenza carnale, una privazione della sua privacy.

Nel suo viso, distrutto dai giudizi della gente, ci sono le parole di tutta l’umanità: tutto è stato detto. Altre parole, in quei solchi, non trovarono spazio.

Mario Ciro CIAVARELLA AURELIO 

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