RACCONTO | Il pregiudizio
«Quando scoppiò l’epidemia della Sars ho scritto questo racconto in viaggio tra Firenze e Prato. Purtroppo è ritornato attuale, con la speranza che il coronavirus venga neutralizzato. Buona lettura»
di Giuseppe Delle Vergini
Di gran corsa, e con un balzo all’ultimo momento, era riuscito a salire sul locale in partenza dal binario 7. Imperlato di sudore ben sapeva che in quei vagoni avrebbe continuato a fare la sauna. L’ultima settimana il termometro non era mai sceso al di sotto dei 35 gradi e l’umidità appiccicava gli abiti alla pelle fin dalle prime ore del mattino. Solo verso sera l’aria rinfrescava ma le pareti delle case restavano calde. Abitando all’ultimo piano poi, era come stare in un forno. Era impossibile dormire con le finestre spalancate sia per le zanzare ma anche a causa del frastuono proveniente dalla strada e alimentato dai tiratardi che frequentavano i bar e i pub della zona. In una situazione così “africana” e insolita per il periodo, il ventilatore faceva quel che poteva, d’altro canto l’aria condizionata era un acquisto che non lo convinceva. “Mal di gola assicurato!” rispondeva a chi gliela consigliava. Ed era ancora giugno. Cosa sarebbe successo il mese di luglio? E quello dopo?
“Accidenti all’effetto serra e all’inquinamento!” pensò.Le portiere del treno si richiusero alle sue spalle un attimo dopo aver poggiato i piedi sulla piattaforma. Incominciò ad attraversare i vagoni strapieni di studenti, impiegati, pendolari e immigrati onnipresenti. Si ritornava a casa dopo una mattinata di lezioni, di lavoro o di chissà quali loschi affari e nullafacenza. La città attirava a sé, come il miele le api, tutto l’hinterland e la sua varia umanità. Andare in auto poi voleva dire stare fermi sotto il sole, in coda a causa del traffico e dei lavori perennemente in corso su strade urbane e autostrade. Quindi restava il treno, affollato come una scatola di sardine, ma almeno così evitava di guidare con quelle temperature e di impazzire poi nella ricerca di un parcheggio. Il treno era pieno, affollato, e l’aria stantia e rovente. Folate di caldo entravano dai finestrini e si confondevano con scie di profumo ormai sfatto e di sudore. Nessuno era esente in quella specie di bolgia infernale. Belli e brutti, italiani e stranieri, erano accomunati nel gran caldo. Mentre procedeva alla ricerca di un posto dove sedere, sentiva il sudore appiccicargli la camicia sulla pelle e la cravatta attanagliargli il collo. Non vedeva l’ora di trovare un sedile libero per potersi almeno togliere la giacca. Ma procedendo nella sua ricerca, quella speranza sembrava essere un miraggio.
Attraversò diversi vagoni, infine la fortuna gli sorrise. Quasi verso la testa del convoglio c’erano due vagoni nuovi o meglio, ristrutturati, addirittura con l’aria condizionata! E c’era anche posto! Infatti la gente si era accalcata, come fa sempre, solo nelle prime carrozze, piazzandosi nei primi sedili trovati liberi . Così quelle di testa erano quasi vuote. Scelse un posto ben appartato, poggiò la giacca su un sedile e la borsa sull’altro. Si sedette verso l’esterno, perché aveva sperimentato che questo era un modo per dissuadere gli altri viaggiatori dal sedersi accanto. Il convoglio partì, lui aprì il giornale e cominciò a sfogliarlo. Quel treno era una lumaca. Impiegava quaranta minuti a percorrere un tragitto di pochi chilometri, fermandosi ovunque. Questo perché, nonostante tutte le promesse e i tanti proclami dei diversi politici nel tempo avvicendatisi sulle poltrone, nessuno era riuscito a realizzare una linea metropolitana sul breve percorso esistente tra una città e l’altra. Alla prima fermata salì solo una signora sulla cinquantina. Si sedette più avanti. Poi, da un’altra carrozza, entrò un ragazzo, capelli a spazzola, isolato dal mondo dalla cuffia del lettore di cd. Il volume era così alto che le note techno poteva udirle anche lui. Ma anche questo andò a sedersi qualche sedile più avanti. Per fortuna non si era avvicinato troppo e l’aria condizionata stava avendo il suo effetto rinfrescante. Si immerse nella lettura del giornale e non fece più tanto caso agli altri viaggiatori che poi salirono sul suo vagone.
Diversi erano immigrati, perché un paio di loro cominciò a parlare a voce alta, con suo gran fastidio. Ma tutti quegli stranieri sempre in giro che cavolo facevano? Di certo non pagavano il biglietto perché clandestini o quantomeno lavoratori in nero. Possibile che non c’erano mai controlli? Quella linea attraversava due province con una della più alte concentrazioni di immigrati di tutta Italia e mai, dico mai, aveva visto una pattuglia di poliziotti chiedere i documenti! Pensava queste cose mentre leggeva il giornale, mal sopportando il chiacchierare ad alta voce degli stranieri, quando il treno si fermò e proprio sulla sua carrozza salì un cinese che andò a sedersi impunemente addirittura di fronte a lui, senza nemmeno chiedere se il posto era libero. Le portiere si richiusero con uno scatto metallico, il treno ripartì sobbalzando e il cinese fece un grande starnuto. “Cribbio!” pensò “con tutto il posto che c’era proprio qui doveva sedersi? Non poteva andare di fianco a quegli africani o di fronte ai suoi connazionali laggiù? E proprio adesso doveva starnutire? Al diavolo tutti gli immigrati e i cinesi in particolare. E se ha la Sars?”
Questo pensiero lo aveva bloccato. Era rimasto con il giornale aperto ma il suo sguardo era poggiato sul cinese. “Cavolo! E se davvero ha la Sars? Adesso che faccio?” Il cinese era piccolo e grassottello, giovane d’età, forse sui trenta, ma era impossibile capirlo se non per approssimazione. Capelli neri a spazzola, occhi ovviamente a mandorla, anche lui appariva sudaticcio. Indossava una polo bianca e pantaloni neri. Ai piedi delle ciabatte da mare. Mentre lo osservava, il cinese fece un altro starnuto, bello forte. E si voltò verso di lui facendogli un sorriso. Almeno così gli parve, anche se i cinesi sembravano avere tutti il sorriso perennemente stampigliato sul viso. “Cosa cavolo ridi? Piuttosto perché sei venuto a sederti proprio qua? Per avvelenare il prossimo?” pensò ma restò come inebetito ad osservarlo.
“Fleddo?” fece il cinese. Lui non disse niente, restando sempre fisso ad osservarlo.”E con l’aria condizionata il tuo virus in breve si diffonderà in tutto il vagone, grazie anche a quella cricca di tuoi connazionali laggiù, che ora ronfano incuranti della salute altrui!” continuò sempre a pensare.Il cinese lo guardò ancora, sorrise e appoggiò la fronte al finestrino, per osservare il paesaggio, lasciando sul vetro una vistosa macchia di unto e sudore.
“Mio dio! Qui moriremo tutti!” pensò. Ma non riusciva ad alzarsi e andare in un altro posto, sia perché si accorse che ormai era circondato da immigrati – alcuni dormicchiavano, altri confabulavano, altri ascoltavano walkman e cuffie – sia perché sentiva ancora addosso il gran caldo e l’aria stantia degli altri vagoni senza aria condizionata. Aveva un incontro con dei professionisti e non poteva certo arrivare alla riunione fradicio e maleodorante. Era terrorizzato, non sapeva che fare. Di certo lui non era un razzista, ma un onesto lavoratore che faceva anche l’elemosina in chiesa per i più bisognosi. Però tutti quei volti non italiani, sarà stato pure il gran caldo e le notizie sull’epidemia della Sars che aveva appena letto sul giornale, non lo mettevano di buon umore e avrebbe voluto non vederli sulla sua carrozza. Guardò la signora cinquantenne, ancora seduta al suo posto, quasi cercando un conforto e una approvazione ai suoi pensieri, ma questa era tutta intenta a controllare l’agenda, incurante del marocchino che aveva di fronte. Il cinese fece allora un altro starnuto, unito ad un raschiamento di gola di assestamento e passandosi il dorso della mano sulla bocca. Di nuovo lo guardò sorridendo.
“Mio dio sono perduto! Il minimo che possa venirmi è la tbc!” fu il suo pensiero. Improvvisamente il treno inchiodò. Lui era sempre con il giornale aperto tra le mani. Si accorse di essere arrivato alla sua fermata. Fu quasi un sollievo. In un baleno raccattò giacca e borsa, ripiegò malamente il giornale e letteralmente schizzò fuori dalla carrozza con tutti che si voltarono ad osservarlo. La vampata di calore che lo investì appena toccò il marciapiede gli sembrò l’abbraccio della salute. Tirò un gran sospiro di sollievo e ricominciò a respirare a pieni polmoni. Si, perché in treno aveva inconsciamente cercato di trattenere quanto più possibile il respiro, rallentandolo, onde evitare qualsiasi possibile contagio. Adesso che si sentiva in salvo, con la coda dell’occhio si voltò verso il vagone. E vide improvvisamente il giovane cinese che sulla porta gesticolava proprio rivolto a lui. Cosa diavolo voleva? Era impazzito? Voleva contagiarlo a tutti i costi? Perché il capostazione non fischiava e il treno non partiva immediatamente, separandolo per sempre da quell’untore?
“Signole! Signole!” fece il cinese agitando in mano qualcosa di scuro “Tuo poltafoglio! Dimenticato!” D’istinto si toccò la giacca all’altezza del cuore. Caspita! Mancava il portafoglio! Le porte cominciarono a chiudersi e allora il giovane cinese gli lanciò contro l’oggetto che aveva in mano, il suo portafoglio appunto. Lo prese al volo, terrorizzato e confuso, non sapendo se ringraziare o maledire quel giovane. L’unico suo pensiero, mentre il locale se ne partì sferragliando, fu: “E adesso cosa mi accadrà?”.
Fece ancora in tempo a scorgere il giovane cinese che, sempre con quel sorriso enigmatico stampato sul viso, con la mano lo salutava da dietro al vetro unto.