Falcone, Borsellino e Livatino, martiri di giustizia animati dalla fede
di Antonio Daniele
In occasione della strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta, è l’occasione per ricordare il pensiero e le opere dei magistrati uccisi dalla mafia. Questi grandi magistrati che sono diventati punti di riferimento mondiali nella lotta alla criminalità mafiosa, vengono ricordati, giustamente, per le loro grandi inchieste in cui hanno messo in luce le opere mafiose di criminali, ma poco si parla della loro intimità d’animo.
Eppure Falcone, Borsellino e Livatino hanno tanto da dirci e insegnarci. La loro vita è stata una virtù non solo per il bene che hanno fatto alla Nazione, ma anche nel significato catechistico del termine: “La virtù è una disposizione abituale e ferma a fare il bene. Essa consente alla persona, non soltanto di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé. Con tutte le proprie energie sensibili e spirituali la persona virtuosa tende verso il bene; lo ricerca e lo sceglie in azioni concrete”. Magistrati in prima linea, uomini di fede animati dal senso di giustizia, virtù cardinale. Falcone, Borsellino e Livatino hanno avuto un’intensa vita di fede. Si sono formati in Azione Cattolica e con la loro impronta cristiana hanno agito nel promuovere la giustizia e la legalità. Prima di vedere nella persona un mafioso da condannare, vedevano l’uomo, immagine anch’egli di Dio.
Non erano animati dal giustizialismo, che magari li avrebbe portati a compiere azioni per far piacere alla stampa e al proprio prestigio personale, ma alla giustizia: “La giustizia verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l’armonia che promuove l’equità nei confronti delle persone e del bene comune”. Chissà quante volte lo avranno sentito al catechismo o letto come impegno morale alla propria missione di magistrati in una terra così bisognosa di giustizia. Il giorno prima che venisse ucciso, Paolo Borsellino chiamò nel Palazzo di Giustizia di Palermo il suo amico sacerdote. Voleva confessarsi, perché si stava preparando al sacrificio estremo.
Il giudice Rosario Livatino iniziava la giornata appuntando nella sua agenda la sigla “STD” Sub tutela Dei, che tanto aveva richiamato i magistrati per capire che significato e che codice nascondesse quella sigla. Per il giudice ragazzino si è avviato, ed è a buon punto, il processo per la sua beatificazione. Il loro impegno, la loro testimonianza di vita, sia per tutti noi uno sprono a vivere e a nutrirci della fede, che pur rimanendo nella sfera privata della persona, essa anima l’azione alla ricerca del bene comune.