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Sulla bruciatura dei residui di potatura interviene il prof. Monteleone

Il Prof. Massimo Monteleone, docente di “Ecologia Agraria” al Dipartimento di Scienze Agrarie, degli Alimenti e dell’Ambiente, Università di Foggia e Componente del Consiglio Direttivo dell’Ente Parco Nazionale del Gargano interviene (preoccupato) sulla rivisitazione della norma regionale in merito alla bruciatura dei residui di potatura.

Preoccupa l’azione assunta dal Presidente del Parco Nazionale del Gargano. Si apprende dall’archivio notizie del sito web dell’Ente che, per iniziativa del Presidente dell’Ente, è stata chiesta una rivisitazione della norma regionale in merito alla bruciatura dei residui di potatura. A tal fine, si afferma, è stato avviato un dialogo con i consiglieri regionali dell’area garganica (Paolo Campo, Napoleone Cera, Giandiego Gatta) e l’assessore regionale Raffaele Piemontese.

L’iniziativa, rimanendone ancora ampiamente incerti i contenuti e gli obiettivi, appare per lo meno incauta ed esige un preciso chiarimento. Se, come si teme, volesse avere una portata generale, ovvero al di là di particolari circostanze in cui sussistano rischi fitosanitari, ciò esige un confronto più ampio e partecipato.

Siamo all’indomani della presentazione pubblica, da parte della Commissione Europea, delle strategie elaborate col disegno “Green Deal”. Mi riferisco alla strategia sull’agroalimentare (cosiddetta “from farm, to fork”) e sulla “biodiversità”. C’è da rimanere attoniti su come, con la crisi covid-19 ancora in atto, ma forse proprio per questo, la Commissione Europea dispieghi un ventaglio di obiettivi mai così determinati.

Tagliare l’uso dei pesticidi del 50% e dei fertilizzanti del 20%; trasformare il 10% delle terre agricole in elementi di paesaggio collegati tra loro; istituire aree protette sul 30% della superficie territoriale; dimezzare le vendite di antibiotici agli allevamenti e agli impianti di acquacoltura; liberare 25.000 chilometri di fiumi dalle barriere artificiali; portare a coltivazione biologica il 25% dei terreni agricoli.

Ebbene, occorrerebbe assumere queste sfide come obiettivo comune e rilanciarne la portata in termini ancor più ambiziosi (in considerazione che il riferimento territoriale è ad un’area parco). Invece, facendo leva su un tema ad alta sensibilità come quello fitosanitario (assai “caldo” in Puglia, in particolare riguardo all’olivo), c’è il “sentore” che si voglia dispiegare una generalizzazione improvvida che non considera il complesso delle condizioni al contorno ed i molteplici motivi d’incompatibilità della bruciatura dei residui.

Si afferma infatti: <<Il divieto di bruciatura imposto dalla vigente normativa regionale nelle Aree Naturali protette e nei Siti Natura 2000, ha causato il ricorso ad alcune pratiche agronomiche che stanno incremento dei danni alle colture e alle produzioni a causa di patogeni e fitofagi (non contrastabili in altro modo se non con l’abbruciamento delle ramaglie), che rendono sempre più evidenti i fenomeni di disseccamento delle chiome degli ulivi>>.

Si invertono i rapporti di causa ed effetto e si estrapola una conclusione generale sulla base di un elemento parziale. Meglio sarebbe dire che a causa di operazioni incontrollate ed imprudenti di bruciatura dei residui di potatura, che arrecano gravi danni all’ambiente, alle cose ed alle persone, occorre intervenire (come si è fatto a livello europeo, nazionale e regionale) vietandone la pratica e disciplinando rigorosamente le eventualità di deroga (come per l’appunto quelle di tipo fitosanitario). Diversamente, partendo dai presupposti così enunciati, si vorrebbe avallare la generalizzazione di una pratica (la bruciatura dei residui) oggi ritenuta del tutto inopportuna e controproducente (tecnicamente e normativamente, se non per motivi fitosanitari, appunto).

Occorre ribadire che la bruciatura dei residui colturali non è pratica corretta (un patrimonio tecnico-agronomico ormai consolidato lo afferma ormai da più di 20 anni). La bruciatura libera in atmosfera inquinanti e polveri sottili assai pericolosi, contribuisce al verificarsi di incendi ed infortuni spesso di grave portata, costituisce uno spreco irrazionale di sostanza organica non più a vantaggio della fertilità dei suoli.

Se, al contrario, i suoli ne fossero arricchiti, potrebbero efficacemente contribuire alla mitigazione del riscaldamento globale (agendo come sink di carbonio). Il fuoco che percorre il suolo degrada l’ecosistema agrario, elimina la sostanza organica presente negli strati più superficiali, annienta la flora e la fauna microbica presente nel suolo e lo predispone ad una maggiore incidenza dei processi erosivi.

La presenza dei residui in superficie (opportunamente trinciati) realizza uno strato pacciamante utile a contenere gli estremi termici, limita le perdite idriche e favorisce l’infiltrazione dell’acqua nel suolo, evitando che vada persa per ruscellamento, ciò che accentua la perdita del suolo più fertile per erosione ed instaura processi eutrofici a carico delle acque superficiali. In questi anni si sono particolarmente diffuse le tecniche di agricoltura “conservativa” che, oltre alla minima o non lavorazione meccanica dei suoli, prevedono l’inerbimento del frutteto ed il mantenimento dei residui di potatura in superficie. Da più parti questa è considerata una gestione ideale del sistema agrario, tanto da essere finanziata col PSR della Regione Puglia.

Sebbene la bruciatura dei residui di coltivazione sia vietata, nelle Zone di Protezione Speciale (ZPS) e nelle Zone Speciali di Conservazione (ZSC), una specifica deroga è già prevista nel caso in cui sussistano seri e comprovati rischi fitosanitari. Non si comprende, pertanto, quali siano le richieste avanzate dal Presidente del Parco, considerando che ciò che lui paventa ha già una precisa copertura normativa. Attendiamo, pertanto, chiarimenti in merito. Ciò detto, occorrerebbe investire tutte le nostre energie per migliorare la resistenza (capacità di fronteggiare ex-ante) e la resilienza (capacità di superare ex-post) nei riguardi delle perturbazioni che insetti nocivi o pericolosi patogeni possono arrecare alle piante agrarie (e agli oliveti in particolare).

Questo richiede un approccio innovativo che, contemperando strategie di contrasto diretto (a base esclusivamente chimica), possa traguardare l’obiettivo di un agroecosistema biologicamente più ricco, strutturalmente meno omogeneo, contraddistinto da un tasso superiore di biodiversità funzionalmente attiva, in grado di garantire un controllo tendenzialmente naturale da parte di una complessa biocenosi.

Al contrario, la semplificazione e la surrogazione massiccia operata dall’uomo tendono ad annullare questa ricchezza e ad annientare i processi biologici di controllo e regolazione. Non sorprende che su queste basi di degrado ecosistemico le colture agrarie, impianti arborei inclusi, mostrino una spiccata vulnerabilità ad attacchi che, in condizioni ordinarie di equilibrio e di cura del suolo, sarebbero invece controllabili.

Occorre dunque più saggezza, più cautela, più spirito d’innovazione, maggiore consapevolezza che la gestione agraria è attività complessa, ad imprescindibile base naturale. Non esistono soluzioni univoche, ma occorre agire in modo tecnicamente consapevole per gestire un ventaglio ampio ed articolato di processi dalla cui integrazione il sistema agricolo trae il vantaggio di una maggiore stabilità. Avrei auspicato che su questo fronte avanzato il Presidente del Parco assumesse iniziative. Constato, con delusione, che le sue sono invece sfide di retroguardia.

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