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La grava di Zazzano: storia, natura e cimitero senza croci

La grava di Zazzano si trova in agro di San Marco in Lamis, nel pianoro carsico omonimo. L’area è fortemente segnata da fenomeni carsici di superficie ed in particolare da numerose doline.

La sua esplorazione avvenuta nel 1957 dal prof. Pietro Parenzan mise fine ad una sequela di leggende e di racconti che circondavano questa cavità. Così scrive Parenzan “Il grande mistero di San Marco in Lamis era la grave di Zazzano, la solita orrenda voragine … senza fondo, che alimentava una serei di leggende e storielle, di donne gettatevi per punizione, di tragedie dell’odio e di vendette politiche, di cadute accidentali. L’immensa grava da secoli inghiottiva tutto, ed era guardata con rispetto dai nativi”. 

Una breve visita al sito rende chiaro il senso di queste parole: la sua apertura in superficie si presenta come un ampio imbuto roccioso, poco all’affacciarsi per le pareti intensamente fratturate e franose.  Dopo la sua apertura la grave scende poi per circa 95 metri. Con queste caratteristiche risulta chiara la capacità evocativa del luogo. 

Il pozzo scende largo per circa 40 metri poi si strozza per alcuni metri per riprendere in seguito  bruscamente la sua originaria ampiezza. Più in basso ancora una volta la sezione della voragine riprende nuovamente progressivamente a ridursi per finire sul fondo con dimensioni assai modeste. Da qui si diparte una galleria in leggera pendenza che, dopo circa 60 metri di sviluppo  diviene impraticabile.
 
La cavità in occasione di prolungate precipitazioni meteoriche funge da inghiottitoio attivo. Nonostante questo dato la cavità, è spesso utilizzata per sbarazzarsi di ogni sorta di rifiuti, con grave danno alla falda sottostante. 

Un cimitero senza lapidi e senza croci

di Antonella Caruso

Il fondo si può solo immaginare, un baratro enorme e terrificante, l’assoluto delle tenebre diventato complice inconsapevole della mafia garganica. E’ la grava di Zazzano, in un territorio impervio del comune garganico di San Marco in Lamis. “Un cimitero della mafia” come lo definì nel 2009 l’allora procuratore della repubblica di Bari, Antonio Laudati.

Giù in quel budello furono ritrovati i resti di almeno quattro vittime di mafia, scomparse nel nulla, inghiottite dalla terra e dalla terra a lungo custodite. La prima discesa nella grava di Zazzano ad opera di un gruppo di speleologi avvenne nel 1957. Le leggende in paese raccontavano di moglie e di donne gettate in quell’immenso pozzo per punizione, di tragedie e vendette.

Leggende alle quali la mafia garganica, invece, diede forma gettando, probabilmente per circa 10 anni, coloro che aveva trucidato.
Vittime di lupara bianca, morti ammazzati la cui tomba era conosciuta solo da chi aveva stabilito che quei corpi, quelle identità non dovessero essere mai più ritrovate.

A 70 metri (nel bagagliaio di un’auto spinta giù dalla bocca larga circa 30 metri) il primo ritrovamento: in una borsa di plastica che l’umidità, gli animali, il tempo aveva deformato, ossa pelviche, costole, arti superiori ed inferiori. in un’altra busta all’esterno dell’auto un cranio. La mafia “non uccide mai gratuitamente” sottolineava il giudice Giovanni Falcone: l’omicidio è l’ultima soluzione quando le minacce, le intimidazioni, la violenza non sono più sufficienti. E spesso gli omicidi non devono lasciare prove, i morti ammazzati di mafia quelli il cui corpo non deve essere ritrovato, portano con sè anche i nomi dei mandanti e degli esecutori. E farli inghiottire dalla terra assume un carattere simbolico.

Un modus operandi fu riscontrato in quel cimitero senza lapidi e senza croci, dove “felci, lingue cervine, muschi e radici contorte degli alberi” rendevano quel baratro ancor più difficile da penetrare. Auto e resti di cadaveri smembrati. Le vittime uccise e poi probabilmente portate in auto sino alla grava, con un sacchetto di plastica in testa per contenere forse il sangue. A circa 73 metri furono ritrovati sempre in una borsa di plastica. Il terzo cadavere ad una profondità di 80 metri. Il quarto corpo alcuni metri più in basso.

Furono identificati solo tre dei quattro corpi restituiti dal fango e dal buio: un ragazzo di 27 anni scomparso nel 2001 e suo padre di 57 anni. Un uomo di 44 anni di cui si erano perse le tracce nel 1991. Mentre resta sconosciuta l’identità del quarto cadavere che come riportato nel libro “Lupara Bianca”: l’uomo “è stato inoltre soggetto a tentativi di smembramento in seguito alla sua morte, probabilmente al fine di facilitarne l’occultamento”.

Una mafia feroce, arcaica e moderna insieme. “Una mafia con regole di vendetta e di punizione mutuate dalle più arcaiche comunità agricolo-pastorali”, ha scritto più volte la commissione antimafia nelle sue relazioni.

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