L’omicidio di un giovane “spretato”: cronaca (quasi) vera di un delitto d’onore
di Tonino Daniele
Ogni processo penale nasconde qualcosa di complicato, intrigante, remoto, dubitoso, e non sempre è facile scovarlo: ci riesce Dike, forte dell’aiuto del padre Zeus; i mortali soffrono limiti in rerum natura: lacune che i codici – ferraglia in mano a strumentisti – non riescono a colmare. Ogni loro azione è viziata e l’accertamento della verità riesce difettoso, claudicante, sempre parziale. Eppure, nei dettagli si nascondono molte cose: il diavolo, gli indizi di colpevolezza e la fine irreversibile di una storia che, tuttavia, prosegue.
Quel 1890 l’attività giudiziaria dell’Assise lucerina riprese – dopo la pausa estiva – con il processo contro Napolitano Bonifacio ed i suoi tre figli: Michelangelo, Ferdinando e Francesco Saverio; l’udienza – per le arringhe conclusive – fissata il 29 agosto. Il processo penale, quel processo penale, esige menti e spirito distesi e ristorati, nonostante l’estate continui a sprigionare giornate infuocate ed il calendario segni giorno sventurato, infelice: di Venere non si dà principio all’arte, secondo la credenza popolare.
Il Presidente della Corte, Consigliere Balsinelli Vincenzo, quella mattina arrivò – come era solito fare – di buon’ora e, prima di recarsi in ufficio, si fermò per pochi istanti nella trecentesca chiesa francescana prospiciente il Palazzo di Giustizia: metodico nella richiesta di misericordia, prerogativa esclusiva di un altro Giudice, quello Supremo; altre leggi, altre formule, governano quel Tribunale.
Intanto fuori dalla chiesa l’usciere era già pronto ad aspettarlo e andandogli incontro lo salutò ossequiosamente <buongiorno, Eccellenza> e, con movimenti ormai collaudati, gli prese la cartella dalle mani; salì, con l’accompagnatore al seguito, le scale del Palazzo consunte dal tempo ed avvertì uno strano senso di frescura dato dalle spesse mura, vestigia dell’antico palatium federiciano. Arrivò defilato nel suo ufficio; tutto era immutato, un ordine maniacale, ogni cosa al suo posto, tranne un leggero velo di polvere sulla scrivania che lo infastidì. Chiese conferma all’usciere dell’arrivo dei detenuti e dei colleghi e se tutto fosse pronto per iniziare l’udienza; prese la toga (anche questa consunta dall’uso) e lanciò l’ultima occhiata al fascicolo; si segnò ed uscì diretto verso l’aula.
Locus commissi delicti, San Marco in Lamis, Piazza Maestra (altezza via Cernaia); tempus, 23 novembre 1889; alle cinque del pomeriggio, l’agguato mortale ai danni di tale Angelo Tricarico, di anni ventotto, chierico e suddiacono con obbligo di celibato. I prevenuti – appostati a poca distanza – lo aspettarono fuori dall’abitazione di Giuseppe La Porta, suo amico e confidente, per disporsi alla consumazione, con efferata violenza, del loro progetto criminoso. Il movente: la sua fuga d’amore con Mariantonia – figlia e sorella degli imputati – di cui si era follemente incapricciato tanto da dimenticare abito talare, studi teologici e vita tranquilla; la sposò – dopo un mese – solo civilmente, stante il divieto delle leggi canoniche: disonore da lavare con il sangue, nonostante il matrimonio riparatore e la nascita di un figlio. E’ imperativo categorico: <uccidi per non essere disonorato due volte>.
L’offesa alla reputazione e all’onore familiare non ammette ripensamenti ed il perdono richiesto fu <male accetto in specie dalla suocera, dalla cognata Emanuela e dallo zio canonico Michelangelo> (così il Pretore di San Marco in Lamis nel “Compendio” redatto il 21 dicembre 1889): il dettaglio non trascurabile della liaison con la cognata Emanuela (pettegolezzo delle comari del vicinato) vanificava ogni tentativo di ricomporre gli animi; inutile anche la dispensa dal celibato ottenuta dalla Curia foggiana dopo un periodo di quindici giorni di penitenza, a proprie spese, presso il convento di Valleverde. Avesse dato ascolto ad uno zio canonico, tale Giuseppe Tricarico, di <contenere> la frequentazione della casa di Bonifacio Napolitano, sicuramente il matrimonio di Mariantonia l’avrebbe celebrato, ma dall’altare.
Atto preliminare: il Presidente invita gli imputati a declinare le loro generalità, formalismo per niente inutile, tanto da esigere l’obbligo della verità; tutto è rimediabile ma guai a processare persone diverse. A Francesco Saverio – l’unico tra gli imputati tirato a lustro – chiese la sua attività; <medico>, rispose l’imputato; il Presidente trasalì: <ha detto medico?>, <ha capito bene, Signor Presidente, medico, mio figlio è un medico>, esclamò Bonifacio; chiese anche se avesse un soprannome: <Muschidde> rispose Francesco Saverio; il Presidente ripeté italianizzando il termine e con tono interrogativo ne chiese la conferma: <Moschidde?>, e lui senza impaccio e contrariato, quasi avesse storpiato il nome di un casato blasonato <no, Signor Presidente, ha sbagliato vocale con la “u” e non con la “o”> e con stizza sillabò <M-u-s-c-h-i-d-d-e>, errore imperdonabile per un raffinato poeta dialettale qual era. Il Presidente non gradì l’insolente correzione e, avvicinandosi all’orecchio del giudice a latere si lasciò andare ad un apprezzamento che il collega approvò per compiacenza con un leggero cenno del capo: <nomina sunt consequentia rerum>, il soprannome prefigura un destino ed il suo è segnato.
Disperata la strategia difensiva degli imputati: è stata legittima difesa, causa di giustificazione capace di generare – oggi come allora – ragionevoli dubbi; è se fosse vero? Ma l’attacco sferrato dalla difesa non colse impreparato il Procuratore del Re: tipo ruvido, spigoloso, a tratti anche cattivo; sembrava avesse appreso le tecniche inquisitorie leggendo la <Practica officii inquisitionis hereticae pravitatis> (vademecum che conservava gelosamente nella sua biblioteca); del resto, <esistesse l’inferno in prima fila starebbero gl’inquisitori> (così F. Cordero, in La tredicesima cattedra, 2020): di peggio non poteva capitare; le ferite mostrate dagli imputati sanno di simulazione: parola di perito. I dubbi superati, strategia poco persuasiva.
A ruota segue la preterintenzionalità, letteralmente: <oltre l’intenzione>; non avevano alcun intendimento di uccidere il “bel Casanova”, ma solo dargli una lezione; tranchant la deposizione di Giuseppe La Porta, testimone diretto (guai a chiamarlo “oculare”: si rischia il buon esito dell’esame di procedura penale): <d’improvviso gli furono addosso, e ciascuno compì la sua parte, il Saverio per primo gli menò un forte colpo di bastone col manico al capo, lo stordì e lo fece cadere a terra. Gli altri tre, Bonifacio Michelarcangelo e Ferdinando, armati di pugnali di varia natura gli si posero sopra e lo colpirono ai fianchi mentre il Saverio continuava a percuoterlo per togliergli ogni mezzo di difesa>.
All’imbrunire di quel venerdì, dopo le arringhe difensive e le conclusioni dell’inquisitore, la Corte di Assise sentenziò la condanna degli imputati: Bonifacio a vent’anni di carcere, Francesco Saverio a venticinque, Ferdinando e Michelangelo a quattordici anni ciascuno, oltre al risarcimento dei danni pari a dieci mila lire (cfr., Tommaso Nardella, Un efferato delitto d’onore di fine ottocento, in QualeSammarco, maggio 2008). Il loro è stato un delitto d’onore: l’avessero commesso oggi l’esito sarebbe stato sicuramente peggiore.
Dopo la lettura della sentenza, l’inquisitore rimase per un attimo confuso in un’altra dimensione (temporale) ed a stento rispose ai saluti; ricordò che anni prima aveva avuto tra le mani un libretto in cui erano raccolte delle poesie di Francesco Saverio, ne ricordava il titolo: <Li sònnera di Simmione> e qualche verso: <Qua ci vo mazza soccia, cumpà Co’./ Tutti, pe’ Cristi! tinime la vocca;/ non ima fa’ a chi tocca e a chi non tocca!>; ma era edito nel 1992 dalla Biblioteca Minima di Capitanata a cura di Antonio Motta! Qualcosa non tornava, ma questa è un’altra storia, una storia che, tuttavia, prosegue.