Un volume che completa la ricerca sui canti popolari di San Marco in Lamis
di Luigi Ciavarella
A distanza di cinque anni
Introdotta dalla nostra tarantella più famosa, “Quanne abballa lu ricce e lla cestunia”, da tutti conosciuta attraverso le tante intepretazioni ricevute nel corso del tempo, questo ballo veniva eseguito in origine durante le feste nuziali, il carnevale o al termine del raccolto nei campi coinvolgendo la partecipazione giocosa dei presenti. Vi sono ovviamente altre tarantelle ma questa, il cui testo viene riprodotto integralmente, rappresenta al meglio le radici armoniche del nostro microcosmo.
I canti calendariali ci forniscono altre curiosità come “Ji so mMarijanecòla della Rocca”, un canto in cui “la figlia di Mariannina della piazza, fa un elenco della sua dote” (Tegne sètte lenzòla de line/tègne de lana nu bbèlle cusscine/tègne nu sacche chjine de mbicce/…) una usanza in voga sino a pochi decenni fa quando l’esposizione della dote era un momento clou di partecipazione collettiva.
Tra i Canti della Questua il più noto è senza dubbio “Jo’ jè Gnenzante”, un tormentone che accompagnava (e accompagna tuttora) un’antica usanza, che veniva cantata il giorno di Ognissanti quando gruppi di giovani, muniti di pochi strumenti musicali, a volte anche di un asinello, allietavano con le loro voci le vie del centro chiedendo a parenti e negozianti “L’ànema li morte”, (Jo’ jè Gnenzante e ttutte lu sapime/e ddacce doje fecurarine/…) raccogliando nelle loro bisacce ogni ben di Dio.
I Canti sul lavoro, che nascevano spontanei principalmente nei campi, – pochi ma significativi –, ci introducono nel tormentato universo (ma anche pettegolo) dei canti legati all’Emigrazione, argomento principe in un ambiente come il nostro in cui questa condizione ha una sua peculiare tradizione. La descrizione del lacerante distacco lo troviamo tanto in “Canta lu rescegnole a rrèvela d’arte”, una sorte di blues paesano (Dumane matina all’alba m’èja parte/e lla partenza mija nnu sconforte) quanto in No vvogghie ji all’Amereca/che jjè troppe a llogne,/no vogghie sapè nènte/de quidde che cce fa (“No vvogghie ji all’Amereca”) quando i nuovi continenti (America ed Australia) rappresentavano per molti il sogno da raggiungere. Ma l’emigrazione ha prodotto anche benessere ed ecco che nel canto “Li mugghière li merecane” vi trovano posto agiatezza e pettegolezzo (Li mugghiere li merecane/non ce màgnene cchiù ppatane,/ce magnene li tagghiuline/cu llu carna di jaddine/ … Li quattrine che mm’ha mannate/cu llu nnamurate me l’èje frusciate/), dicerie o verità che ben rappresentano il clima che si respirava allora in paese.
Su questi temi vi sono molti altri canti, forse il capitolo più intenso del volume in cui Grazia Galante vi indugia maggiormente e dove la sua ricerca spazia in ogni direzione ponendo in rilievo i moltiplici aspetti che lo riguardano. Dall’abbandono al melodramma, alla solitudine come alle relazioni spezzate, alla infedeltà, l’emigrazione ha lasciato tuttavia sul terreno molte ferite spesso insanabili.
Anche nei Canti Politici, nel capitolo successivo, abbiamo una varietà di motivi che testualmente si contrappongono, per passioni e argomenti, tra le diverse fazioni. In questo “teatrino” vi appaiono i nomi più illustri di paese che a vario titolo hanno animato la scena politica locale: “Quanne vène Majetelasse (che fu tra i fondatori del Partito Socialista di Capitanata) lu pajese ce scunquassa/e cce jènghie d’allegrija oppure, più sarcastico e irrispettoso, Majetelasse jè bbèllefatte/li facime lu letratte/l’appennime mbacce lu mure/e mMacarèlle lu pigghia ncule.
D’altro lato la disputa tra democristiani, comunisti e area liberal-repubblicana non conosce tregua : “O bianco fiore”, l’inno democristiano, cita Angelo Chiaramonte (la jaddina ha ffatte l’ove/l’ha fatte Sope lu Ponte/alla faccia de Chiaramonte) oppure L’ha fatte inte la cajòla/alla faccia de Sijola (Michele Parisi, che fu consigliere comunale nel 1948). Vengono citati anche Federico Kuntze, pretore ma sopratutto esponente di spicco del Partito Comunista, Pietro Villani (Pètre Zecchetelle, medico e segretario del PSI cittadino), Don Custantine Serrilli, Don Ggiuuanne e Cammiscione (Nazario Bevilacqua). Esemplare in questo senso il canto “Alla travèrsa Catenèlle” nel luogo in cui vi appaiono sullo stesso piano, come in una commedia tragicomica, personaggi e demiurghi, i protagonisti che hanno fatto la storia politica del paese.
I Canti dei soldati invece ci portano alle struggenti note degli innamorati costretti a separarsi a causa del servizio militare. Vi domina la figura del treno (“Parte lu trène tradetore” : Parte lu trène e nno mme dice addije/parte lu ninne mija alla cavalleria), “Mamma mia che treno lungo!” Oppure le struggenti melodie di “Nennella, dumane parte”, “Rosina bèlla” e “Un giorno Giulietta”, dove palpiti d’amore e sospiri languidi si confondono con le promesse e le speranze, ma anche con un pizzico di patriottismo (Dumane parte a ffà lu suleddate/ammèze e ttanta suleddate/e ccu lla spata alla cinta/e lla nnòcca tricolò).
L’ultima parte, la più copiosa, è riservata ai Canti Vari nell’area in cui vi confluiscono più temi. Da “L’acqua che tte lave la matina” e “Lu scardalane” (con una foto raffigurante Francesco Perta, celebre scardalane sammarchese),- peraltro si tratta di motivi già noti per essere stati eseguiti da artisti locali in questi anni -, questi motivi fanno da incipit ad una serie di canti che catturano alcuni mestieri in uso sino a poco tempo fa : lu mbrennelare, lu scarparèdde (con una foto di Giuseppe Fratino sull’imbocco di corso Giannone dove teneva bottega) e lu pecurale, lu zappatore, lu povere barbière, lu vuttajole. Vi si narrano anche tragedie amorose (“Renèlla Ammèze lu Chiane”), ed altre di varia tipologia per finire con “La cestunia de Concettella”, ritornando così alla tartaruga nel punto in cui siamo partiti, anche se in questo caso la “cestunia” è di tutt’altra natura.
Grazia Galante ha compiuto un vero prodigio sul versante della ricerca sottraendo all’oblio materiale prezioso che altrimenti non avrebbe mai visto la luce. Un merito encomiabile che la pone tra le personalità più autorevoli, tra quelle che meglio hanno saputo esplorare la vasta area della cultura popolare e tradizionale, mettendo in campo i risultati della sua ricerca attraverso la pubblicazione periodica di volumi che di volta in volta hanno trattato di racconti, giochi, cucina, superstizioni, etc. oltre al monumentale vocabolario del dialetto sammarchese, sempre con rigore filologico, con i quali è riuscita a far emergere da quell’immenso deposito di cultura popolare (Saverio Russo) tutto il sapere che riguarda la nostra terra, le nostre radici.
Al volume hanno contribuito il M° Michelangelo Martino, che ha provveduto – come nel precedente volume – agli spartiti musicali mentre il disegnatore Giuseppe Ciavarella ha illustrato, direi magnificamente, alcuni scorci del paese, il Presidente del Conservatotio Saverio Russo, che ha curato la presentazione, e il musicista Ciro Iannacone, che ha prodotto il CD.