1921-2021, il secolo (breve) di Nino Casiglio. Viaggio tra uomini, libri e avventurose letture di “verità sconvolgenti”
di Tonino Daniele
Tempo addietro un amico, notoria la mia passione per la lettura, mi diceva: <hai mai letto Nino Casiglio?>, ed io rispondevo un po’ goffamente nel vano tentativo di nascondere la mia inescusabile ignoranza: <Casiglio chi?>, e lui: <ma come chi? Mi meraviglio tu non lo conosca!> e mi mostrava un libro dell’autore che aveva appena ritirato dalla biblioteca comunale, La strada francesca. Immediatamente, decisi di colmare quella mia imperdonabile lacuna: dovevo assolutamente leggere quel libro e saperne qualcosa dell’autore, rimproverandomi l’ingenua défaillance culturale.
Provvidenzialmente l’acquisto del libro è stato preceduto da un gradito regalo: gli atti del convegno tenutosi in San Severo (sua città natale) il 14 novembre 1996 dedicato alla sua vita e alle sue opere, e patrocinato dalla Fondazione “Pasquale e Angelo Soccio” di San Marco in Lamis (Foggia, Edizioni Del Rosone, 2000): qualcosa iniziava a schiudersi all’orizzonte, ai miei limiti; e così tessera dopo tessera ecco svelarsi un coloratissimo e straordinario mosaico dove si scorge l’impegno professionale, culturale e politico di Nino Casiglio, quello cioè di un vero intellettuale, un intellettuale gentiluomo, di quelli – come ci ricorda Pasquale Soccio nel suo intervento – <nati con la matita rosso-blu in tasca> e capaci di correggere chiunque (anche il Padreterno), l’uomo dell’essere piuttosto che dell’apparire, cui continuare ad attingerne gli insegnamenti.
E poi ci sono le foto: quella con Tommaso Fiore e Maria Bellonci (scrittrice che ha avuto il merito di rivelarmi la “santità francescana” di Lucrezia Borgia) e, soprattutto, quella tra i suoi libri, perché Nino Casiglio è stato soprattutto <uomo di libri> e le sue storie sono storie di uomini e di libri insieme, di quei libri che non ti sono – però – amici (banalità che si legge sui social o, ancor peggio, si sente durante inutili kermesse letterarie) ma, come ricorda F. Kafka in una lettera scritta all’amico Oskar Pollak, nel 1903, <ci piombano addosso come la sfortuna, che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi , come un suicidio>. E sì che i libri agiscono, ci torturano, mettendo a nudo le nostre fragilità, i nostri limiti; giudici spietati delle nostre colpe, sono un pezzo della nostra vita, della nostra casa <infinita ed infinibile>.
Ed eccolo, edito da Rusconi nel 1980: La strada francesca, libro che narra di libri: strumenti del sapere, di un sapere libero che libera; sono – come ci ricorda l’Autore – <una cosa strana, e meno si mettono sotto gli occhi della gente, meglio è>. E’ la narrazione di un viaggio, di città in città, di feudo in feudo, che un giovane scrivano compie (insieme al saggio don Agostino) alla ricerca dello zio Alano in fuga perché sospettato d’eresia (così è detto nel risvolto di copertina) e sullo sfondo, a fare da cornice, la storia di tanti libri, da quelli troppo <ardui per le nostre potenze intellettive> (tale è – secondo Padre Serafino, l’inquisitore in tonaca bianca con cappa nera – Catena delli eventi preteriti presenti e futuri, in cui si mostra il vincolo sublime, per mastro Giorgio da Firenze) a quelli <che ricominciano ad ogni pagina e quasi a ogni riga>. E come non ricordare la storia di quel secondo libro della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia e al riso, che il giovane chierico, Adso da Melk, ed il suo maestro, Guglielmo da Baskerville, <inquisitore pentito>, trovarono – avvelenato nelle sue pagine – nella labirintica biblioteca di un monastero benedettino dell’Italia settentrionale che Umberto Eco manda alle stampe qualche mese dopo?
Ma Casiglio – oltre a guidarci nel viaggio e nelle vicende del giovane protagonista – ci ricorda anche una verità storica (che qualcuno ultimamente sembra aver dimenticato): la “strada francesca” rimane un pellegrinaggio e non un camminamento per sportivi della domenica, <il viaggio e il tentativo di esplorazione del regno sconfinato e impenetrabile della conoscenza, perché si possa raggiungere una condizione umana più accettabile, più dignitosa, meno mortificante> (così G. De Matteis, Atti, cit.).
Ma gli eventi si susseguono e, prima ancora di finire l’avventurosa lettura de La strada francesca, ecco un altro inaspettato regalo: la versione scolastica – curata da Antonio Motta per i tipi della Bastogi – di Acqua e Sale, altro romanzo che l’autore scrisse nel 1977 (Premio Napoli nello stesso anno). E’ il racconto di una vita faticosa e sofferta, quella di un povero diavolo: Donato Marzotta, costretto al confino per essersi ribellato all’arroganza di un locale gerarca fascista dove, lui contadino, <prende l’abitudine a leggere>. Ed ecco ritornano i libri, quelli che servono a controbilanciare le attese deluse e le sconfitte inevitabili; che raccontano una verità sconvolgente: <non è vero che lo sconfitto ha senz’altro torto e il vincitore automaticamente ragione> (così l’Autore nella nota introduttiva all’edizione scolastica citata); che stanno lì a ricordarci che, nonostante tutto, nulla è perduto; che non hanno certamente consentito al povero Donato di realizzare i suoi <programmi>, i suoi progetti di vita, i suoi sogni (la splendida villa al mare rimarrà raffigurata nella stampa appesa al muro di quella casa che non riuscirà mai a sopraelevare), ma sicuramente lo hanno reso un uomo libero, di quella libertà che consente di riconoscere anche il più inaccettabile dei fallimenti: <per me, è cambiato quel che doveva restare, è rimasto quello che doveva cambiare>.
Cento anni ci separano dalla nascita di Nino Casiglio (28 maggio 1921): un secolo perché lo si possa scoprire e riscoprire, leggerlo e rileggerlo, apprezzare la sua vibrante sensibilità di comprendere l’uomo ed il pudore dei suoi sentimenti, la sua capacità di coinvolgere il lettore fino a renderlo protagonista delle sue storie: de te fabula narratur, la sua disponibilità ad attendere pazientemente quanti ancora alla domanda se hanno mai letto i suoi libri, risponderanno: <Casiglio chi?>, consapevole che la parola (quella scritta) non ha tempi perché contiene in sé, meglio di qualsiasi altra cosa, l’essenza del Tempo.
(pubblicato su l’Attacco, 8 gennaio 2021)