Con “Finestre sulla Storia”, il sammarchese Pasquale Iannacone si rivela un grande narratore
di Antonio Del Vecchio
“Finestre sulla Storia” è il quarto libro in vetrina di Pasquale Iannacone, a San Marco in Lamis. Docente di Lettere presso le scuole secondarie per trentotto anni e poi in pensione, prima di scoprirsi scrittore, aveva praticato i suoi hobby preferiti: viaggi, ascolto della musica, letture, gioco a scacchi e a carte, in particolare al tressette. Di entrambi era stimato un discreto campione. Ad un certo punto non più. Avvertiva stanchezza e insoddisfazione. Da qui il suo interesse e la voglia di tramandare agli altri la sua esperienza di vita e di studio, tramite la scrittura, regalandoci nel giro di qualche anno alcune opere originali ed interessanti.
In primis si fa conoscere per la prima volta in edicola con una trilogia, Le fonti della conoscenza. Si tratta di una raccolta di approfondite riflessioni sul sapere, riferite agli anni 2017 – 2018 -2020. Questa volta lo fa – come egli stesso afferma nella sintesi biografica di copertina- non per annoiarci con le sue illuminazioni su questo o quel risultato dell’esperienza di ieri e di oggi, ma “per portare – minimizza – un po’ di aria fresca e di luce a fatti e personaggi della letteratura e della storia”. E ci riesce per davvero, rilevando particolari significativi talvolta omessi o bistrattati anche dai lettori e studiosi più accaniti e scrupolosi.
I suoi personaggi più amati sono nella letteratura Machiavelli, Shakespeare, Rousseau e persino Calvino, mentre nella storia primeggia Federico II con tutte le sue avventure, disavventure e misteri, a cominciare dal suo concepimento, nascita e infanzia precoce. Dei primi parla delle loro opere maggiori come nell’ordine: Amleto; il Principe e la Mandragola; il Dialogo e il Contratto sociale; il Barone rampante.
Sempre in campo storico troviamo altri capitoli e personaggi su cui si trinciano o si rilevano giudizi e argomenti innovativi e rari. Il riferimento è alla questione meridionale e ai suoi profeti, come Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato e la povertà naturale del Mezzogiorno, o il perché di Giolitti, ministro della malavita, ecc.
C’è, poi, il capitolo dedicato alla cucina, alle sue fonti, spiegandoci il perché della cucina di Apicio è assai indigesta e quella di Artusi è scienza ed arte del mangiare bene, passando poi ad evidenziare la bontà della cucina mediterranea tra preziose spezie naturali e bravura dei cuochi tra secoli di eccesso e quelli di essenzialità.
Infine, c’è l’ultimo, forse il migliore pezzo del libro, quello dedicato a Peppino Settebello. Scritto, quest’ultimo, che scorre grazie al suo stile asciutto ed essenziale e si gusta rigo dopo rigo, divertendoci con le continue trovate e battute del protagonista e le immersioni nella fantasia, alternate alle vicende della vita quotidiana. Tanto che ad un certo punto riesce per davvero difficile distinguere la cronaca dei fatti dall’invenzione sic et simpliciter, direbbe il professore.
Si tratta appena di una ventina di pagine, ma se proseguisse – con il riporto di altri episodi attinenti non solo al protagonista principale Peppino, ma anche ai dintorni, compresi fatti risalenti alla civiltà contadina di un tempo, quella garganica, ossia della vita nel cosiddetto “bosco” – sicuramente potremmo avere domani un vero e proprio romanzo, a mezza strada tra verismo e sublimazione creativa.
L’autore, laureato in Storia e Filosofia, fu compagno di scuola di chi scrive durante i primi anni ginnasiali e ricordo che aveva stoffa e profondità di pensiero sin da allora. Non a caso lo chiamavamo scherzosamente “filosofo” e filosofo fu per davvero almeno negli studi e successivamente nella vita. Ora si spera e si augura che diventi anche un grande scrittore in sintonia ai suoi ultimi scritti.
Il riferimento è alla storia semi-seria del citato Settebello, alias Giuseppe Nola, originario del napoletano. Ed è proprio qui che rivela ai quattro venti, ossia al pubblico dei lettori, la sua vera “stoffa” di raffinato narratore. Nel farlo, come accennato più avanti, si rifà un po’ al verismo verghiano, per il resto al neo-realismo del dopoguerra, coniugando bene i vari intrighi, come se fosse per davvero una partita a scopa, riservandosi puntualmente alla fine la carta vincente, significata sia dalle donne e dal loro amore, sia dai diavoli, che vanno via con la coda tra le gambe, sconfitti dalla sagacia e lungimiranza dell’autore, che riesce a burlarsi anche di loro, confermando così il detto che ne sa una più del diavolo, appunto. Ad maiora!