di Maurizio TARDIO
Il cortometraggio sull’eccidio di San Giovanni Rotondo ha il pregio di non disperdere una Memoria collettiva, anche se non condivisa, ma i pregi finiscono lì.
Il corto realizzato da Gennaro Tedesco (per le riprese di Matteo Carella e Pietro Rendina, le musiche di Michele Piano e il montaggio di Alessandro Russo per conto del circolo Anpi Giuseppe Limosani), narra con interessanti particolari ricostruttivi – grazie al merito degli intervistati, tutti qualificati – gli eventi di quel tragico 14 ottobre, ma indugia più su un Risiko da piazza che su un fatto che ha avuto una eco nazionale, pagando dazio a una cultura locale che si anima per riportare i pioppi in piazza dei Martiri ma lascia a impolverarsi, in un oscuro angolo del chiostro comunale, altre testimonianze della Memoria cittadina.
Una Memoria che dimentica, ad esempio, d’inorgoglirsi per la sua Storia che è un unicum in quella prima parte del secolo breve, dove San Giovanni Rotondo divenne fulcro fondamentale di una narrazione che coinvolgeva Chiesa e Stato, perché quel dimenticato paese ai piedi di Monte Castellana, non era diventato solo un covo di socialisti, ma anche luogo ospitale e sollievo per un frate che era destinato a cambiare il futuro di quella comunità.
La città era a quel tempo capitale di una doppia rivoluzione: politica e spirituale. Un mondo nuovo e un nuovo Cristo, per dirla come lo storico Luzzatto, Giù in piazza i socialisti erano diventati – sia pure per una manciata di voti – i padroni del Comune.
Su in convento, un umile cappuccino, crocifisso come Cristo, stava richiamando l’attenzione delle gerarchie ecclesiastiche per i suoi segni sanguinanti, facendosi promotore di una Chiesa proiettata alla cura e sollievo dei sofferenti.
Se poi si aggiunge – ma è questione successiva – che San Giovanni Rotondo divenne il fulcro estrattivo di bauxite più importante d’Italia, si comprende come la sua Storia non può limitarsi a un racconto da Quarto Grado, dove manca solo il colonnello Garofano e la criminologa Bruzzone o essere inclini ai plastici di vespano effetto televisivo.
La storia sangiovannese è molto più complessa, più articolata, più profonda di quanto lasci intendere il racconto “sposato” da Gennaro Tedesco che continua a coltivare un filone partigiano-sindacale di sicura suggestione ma di poca “ciccia” storica, che si realizza solo frequentando i polverosi archivi e le consumate carte.
Il suo cortometraggio allora tutela la Memoria, ma non la valorizza, finendo per organizzare un lavoro che parla a un ristretto circolo di compaesani, attenti più alla suggestione della veduta dall’alto di piazza dei Martiri che alla profondità di un movimento popolare che era figlio del disagio sociale ed economico, tant’è che i quattordici nomi delle vittime dell’eccidio sono quasi tutte del ceto basso e ignorante che cercava una rivalsa sociale attraverso – questa volta – la legittimazione elettorale.
Già perché di rivalse il popolo sangiovannese ne aveva tentata anche un’altra, all’indomani della unificazione nazionale, trucidando, con ferocia, gran parte della classe dirigente dell’epoca. Così il 1920 pare essere una vendetta di quello che avvenne nel 1860.
In poco più di mezzo secolo si consuma un ribaltamento che racconta della storia meridionale: prima carnefici e poi vittime. E in entrambi i casi con il clero che pare giocare un ruolo d’istigatore della ferocia popolare.
Prima contadina, poi avanguardista. Salvo accordarsi con il potente di turno. E qui bisognerebbe capire cosa fece il clero sangiovannese, che in quel periodo aveva un particolare esempio di soccorso in don Giuseppe Prencipe, sacerdote impegnato nel sociale.
Insomma nel corto di Tedesco c’è San Giovanni, manca la sua Storia.