Un ulteriore volume di Grazia Galante sulle tradizioni del nostro paese.
Con una prefazione di Grazia Stella Elia, studiosa di temi popolari nonché poetessa e Autrice di teatro, di Trinitapoli, nota soprattutto per aver curato il dizionario del dialetto del suo paese, vede in questi giorni la pubblicazione di un altro volume di Grazia Galante, instancabile ricercatrice delle nostre radici popolari dal titolo “Il ciclo della vita. Tradizioni e credenze di San Marco in Lamis” (Edizioni Andrea Pacilli).
Un volume che possiamo considerarlo un testo fondamentale tra i più affascinanti finora scritto da Grazia poiché ci introduce nell’intimità di una narrazione che parla delle proprie radici seguendo un percorso di vita che comincia dalla nascita (anzi dal concepimento) e termina con la morte, raccontando un passato neanche troppo lontano, senza cedere alla nostalgia, dove la studiosa fa emergere tutte quelle peculiarità che hanno caratterizzato la vita del nostro vissuto.
Dalla gravidanza alla nascita (una bella foto di Vincenzina la mammana alias Vincenzina Giuliani 1917-2006 rende emblematico questo passaggio), quindi il corredino del neonato (che veniva preparato per tempo: li fasciature a cquatte pède, li culazze, etc.) seguito dall’allattamento, che avveniva al seno materno (se insufficiente si ricorreva al latte di asina), sino allo svezzamento, i primi germogli di vita vengono qui raccolti nel primo capitolo con dovizia di particolari. Tra le credenze immancabili c’era l’abbetino, un cuoricino di stoffa che i bambini portavano con sé e serviva contro il malocchio (confezionato dalla mitica Vrunnachicchia, – Veronica – così soprannominata perché era piccola di statura ma aveva un cuore grande e una simpatia unica). Altre superstizioni erano la recita del “Credo”, pronunciato dai genitori durante la funzione battesimale, che doveva essere ben declamato, per non rischiare di avere un figlio balbuziente, e una preghiera per scacciare lu scazzamuredde, un folletto impertinente che ha popolato i nostri sogni o incubi infantili.
(In quanto a credenze non ci siamo fatti mancare nulla tipo qui troviamo anche lupinare, streghe, etc., ben più pericolosi dei folletti).
Quindi sacro e profano già delineavano la sorte del nascituro.
Grazia indugia molto su questi particolari poiché era importante, allora come oggi d’altronde, per i genitori, la crescita e la cura del proprio figlio nel tempo in cui ne nascevano molti, considerati alla stregua di una benedizione, un futuro sostegno per la famiglia. Quasi un investimento.
In una società prevalentemente contadina ma dignitosa come quella di San Marco in Lamis, Grazia Galante ci ricorda che i giovani venivano avviati presto al lavoro nei campi e le ragazze alle scuole di ricamo, peraltro molto rinomate in paese. La scuola era la strada (maestra di vita) dove si cresceva tutti insieme attraverso i vari giochi che la studiosa, nel corso delle sue indagini, ha ben raccontato, in attesa della quasi certezza che molti un domani avrebbero preso la via dell’emigrazione, tappa obbligata in un paese che non offriva quasi nulla.
Dopo le scuole materne, gestite dalle suore, i ragazzi e le ragazze facevano la prima comunione con i loro vestitini nuovi e la fascia al braccio. Il volume è ricchissimo di scatti
fotografici d’epoca (ma anche di recenti), ve ne sono più di duecento, oltre ai preziosi disegni di Giuseppe Ciavarella, Annalisa e Donato Nardella, che affiancano la narrazione in maniera efficace, fornendo un supporto decisivo alla completezza del racconto. Gli scatti provengono quasi tutti dall’archivio fotografico di Giuseppe Bonfitto.
Il fidanzamento, che precedeva il matrimonio, aveva un rituale che consisteva per prima regola rispettare la parità sociale. Il corteggiamento si svolgeva attraverso una curiosa avance che il pretendente rivolgeva all’amata raffigurato in un ceppone adornato di zijarèdde che egli depositava davanti a casa sua restando in attesa di una sua risposta. Se ella lo gradiva, nel senso se il ragazzo era di suo gradimento, allora se lo portava dentro altrimenti lo rifiutava. Altre volte la dichiarazione avveniva mediante una serenata. Quindi non sarei poi così sicuro che fossero gli uomini a scegliere le fidanzate. Spesso però i matrimoni erano combinati dalle rispettive famiglie.
Una volta fidanzati i due promessi sposi dovevano rispettare i rigidi protocolli imposti dai rispettivi genitori: si amoreggiava si ma sotto casa sorvegliati da qualcuno di famiglia.
Quando capitava che l’amore tra i due era contrastato dalle famiglie si ricorreva alla pratica di ce ficcava a ffòrza nel senso che, approfittando dell’assenza dei genitori di lei, il giovane entrava nell’abitazione chiedendosi dentro a chiave. A questo punto si accettava il fatto compiuto e le due famiglie potevano procedere al matrimonio.
Il matrimonio era preceduto dalla preparazione della dote, dal corredo ed altro materiale che veniva esposto al pubblico (pettegolezzo), che ciascuna famiglia contribuiva a finanziare. Dopodiché avveniva il matrimonio.
In genere il pranzo nuziale si svolgeva in casa della sposa nella cui strada tutto il vicinato veniva coinvolto. Si cucinava nella casa di fronte e il menù aveva una unica portata: pasta fatta in casa con sugo di carne mista ben annaffiato di buon vino. Ogni ben di dio: propati, dolci, frutta secca, confetti, liquori (rosolio), etc. faceva da contorno e la sera si spostavano i tavoli e si procedeva alla festa danzante con balli e tarantelle che un complesso musicale del posto suonando coinvolgeva tutti i presenti.
Naturalmente anche questa parte è ricchissima di particolari. La casa aveva (ed ha tuttora) un valore assoluto, considerato alla pari di un bene prezioso, una priorità, possedeva una sua sacralità, come pure la famiglia in un contesto familiare in cui i problemi era tanti e farvi fronte comportava spesso molti sacrifici.
San Marco in Lamis era un paese povero ma laborioso, onesto. Abbiamo avuto eccellenze nel campo della lavorazione dell’oro e oggetti preziosi (susteme e monili che ci venivano richiesti perfino dai paesi vicini) come in quello del legno, eccellenti mastri muratori, veri artisti che si sono distinti nelle tante attività artigianali rendendo, con le loro botteghe, proverbiale il nome del paese.
Ma il nostro è stato soprattutto un paese che aveva ben saldo il senso del dovere e dell’onore, era il posto in cui una strada custodiva l’intimità di un condominio solidale, dove ognuno aiutava l’altro; dove il rispetto era una condizione irrinunciabile del vivere comune sul luogo dove bastava la presenza di una “divisa” (vigile o carabiniere che fosse) per incutere timore.
Ma era anche un paese percorso trasversalmente da una forte religiosità, sostenuta dalle tante manifestazioni devozionali (che il volume ben documenta) che si celebravano (e tuttora si celebrano) nel corso dell’anno: i riti della Pasqua con il mito delle “fracchie” che continua ad essere il simbolo della nostra tradizione più importante al mondo, del culto della Madonna Addolorata, protettrice del paese, e delle tante altre processioni legate ai santi che hanno sempre avuto una accoglienza molto calorosa da parte della popolazione.
Nell’ultima parte del ciclo della vita vi troviamo la morte che chiude l’esistenza umana. Tra le credenze più comuni vi era quello di inserire nella tasca del vestito del defunto un fazzoletto e alcuni spiccioli che dovevano servire per pagare il passaggio nell’aldilà. Credo che questa credenza sia ancora attuale. Un tempo a seconda della posizione sociale del defunto la processione procedeva a volte in carrozze sontuose con la partecipazione corale di tutti i parroci del paese e relativi chierichetti. Vi sono alcuni scatti che lo documentano. Non secondario il fatto che sovente, per i facoltosi, vi era radicata la pratica di accompagnare il feretro al suono di una banda musicale, oggi scomparso.
La banda musicale (e in seguito le tante formazioni pop) sono state un collante importante nella vita sociale del paese, poiché hanno fatto da colonna sonora ai tanti appuntamenti succedutesi in paese. Non c’era ricorrenza senza la presenza della banda che oggi come ieri percorreva le vie del paese in segno di festa. Abbiamo avuto alcuni Direttori di musica tra cui il più importante è stato senza dubbio il maestro Luigi Giordano che, contrariamente a quanto scritto da Grazia, non ha alcuna parentela con il più noto Umberto. L’orchestra suonava le sue partiture nello spazio riservato in cassa armonica situata un tempo al centro della villa comunale prima che una mano sacrilega lo demolisse, che ha sempre goduto dell’attenzione dei tanti intenditori appassionati.
Vi sono altri temi altrettanto seducenti contenuti nel volume (che invito caldamente a leggere) che raccoglie ogni momento della nostra storia, ogni alito del vissuto, dove ogni cosa qui viene illuminata, dove, se non fossi a conoscenza di altri nuovi progetti in cantiere da parte dell’autrice, mi verrebbe il sospetto di considerarlo un libro di commiato.