Orfeo e Euridice di Joseph Tusiani: una variazione poetica del mito
di Tonino DANIELE
Albert Camus diceva che i miti sono fatti perché l’immaginazione li animi, e quello di Orfeo ed Euridice ha ispirato la letteratura (e non solo quella) di tutti i tempi, trovando in essa (e, soprattutto, nella poesia) la fonte dell’immortalità e della sua vastissima fortuna. Ma il mito è materia argillosa, facilmente modificabile, perfettamente adattabile, vocato alle variazioni e alle composizioni poetiche.
Joseph Tusiani, poeta e scrittore italo – americano, autore copioso di poesie in cinque lingue che ha avuto il merito di far conoscere la letteratura italiana di là dell’oceano, dove emigrò subito dopo la laurea, non poté rimanere sordo al richiamo mitologico. Ne scrive un poemetto, diciannove canti in endecasillabi, Orfeo e Euridice, favola in versi, che oggi, a distanza di circa settant’anni dalla sua stesura, e grazie alla «devota ricerca speleologica» e all’acribia di Antonio Motta e Cosma Siani, possiamo leggere edito dal Centro Documentazione “Leonardo Sciascia/Archivio del Novecento” di San Marco in Lamis.
Sono versi che rivelano un lato oscuro, ignoto, dell’autore (forse il “vero” volto volutamente nascosto per anni): non più solamente il poeta che ha scritto del dramma degli emigranti, delle loro cicatrici, della loro incapacità di opporsi a quell’«invisibile burattinaio che ha nome Destino», della loro timidezza, a volte anche malcelata, nell’imprecare contro quel Dio per aver fatto il mondo così triste e che abbiamo letto nella sua autobiografia, In una casa, un’altra casa trovo (Bompiani, 2016).
Niente di tutto questo. Dalla complessa storia di Orfeo, il trace, nasce una composizione di straordinaria intensità poetica: versi intrisi di sentimento e spiritualità in cui la parola diventa sinfonica e la poesia tutta chiamata a colmare il vuoto della vita.
Quanto dolore in quei versi iniziali! un ingresso drammatico, quasi a voler sottolineare l’infelice destino del protagonista che Tusiani – però – non gli accanisce contro come Virgilio nelle sue Georgiche dove le donne di Cìconi, durante le notturne orge di Bacco, ne fecero brandelli «con il capo strappato dal collo»: «Era la notte, e la notte è silenzio, / il silenzio è dolore, ed al dolore/ noi siamo nati. Il mare era lontano, /e il mar lontano che non più si veda/ è come amor goduto e poi perduto, /e noi siamo nati a perdere». Non sarà, forse, perché come ci ricorda un altro Orfeo, quello emerso di Jack Kerouac, «un po’ di infelicità giova al poeta. E’ il dolore la legge per l’artista. Il dolore è l’essenza della vita»?
Nella favola del poeta “dei due mondi” il respicere di Orfeo infrange solo un sogno, quel sogno che gli ha consentito di vedere e sentire Euridice, di pensarla ancora viva, e che il suo senso umano ha violato rimpiombandolo nel pianto nella «notte illimite». Del resto, dall’Ade – lo squallido regno delle ombre – non si ritorna se non in sogno. Lui, Orfeo, rimane consapevole della realtà irreversibile della morte: «Fonde, siam fronde, ed occupiamo il posto/ di altre che già furono e non sono/ ed altre, un dì, saranno noi» e che la vita si perpetua solo nel ricordo di ciò che amiamo perché «solamente muore il fior selvaggio che nessuno ha scorto».
Sono versi che recano, ed impongono, l’immagine di un uomo solo ed infelice; in essi riaffiora la solitudine di Orfeo che sembra identificarsi, ed interamente coincidere, con quella (fin qui sconosciuta) dell’autore. E’ il Mago della Grotta, il dio dei messaggi, a ricordare ad entrambi i poeti questa stravolgente e crudele verità: «Voi sarete infelici perché voi siete soli». Rimane, infatti, difficile, in questi versi che intristiscono l’animo, scindere la vita di Tusiani dalla favola di Orfeo, tanto che nella nota che accompagna il testo, Lucia Tancredi immagina Orfeo vagare per la selva urbana di New York e Tusiani uscire «dal sottobosco letterario del Bronx», facendosi strada; ma si sente ancora «giovine, non ancora esperto in cuore», «semplice e nuovo/ senza il serto di lauro in testa/ poeta imberbe con vello di pastore/ senza lira».
Solitudine ed infelicità che si trascinano inesorabilmente verso un pessimismo di stampo leopardiano, fino a confondersi con esso. Gli stati d’animo combaciano perfettamente, le affinità poetiche sovrapponibili: «Fronde, fronde/ fragili, affrante, noi siamo lo specchio/del nulla, e il nulla è il tutto, e il tutto è male» canta Orfeo, il poeta di Apollo (e per alcuni anche il figlio); «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male» scrive, invece, Leopardi nel suo Zibaldone.
Nostalgico e contrassegnato da struggente e romantica malinconia è il luogo scelto dall’autore per l’ambientazione della vicenda mitologica. Il Gargano, il “suo” Gargano fa da sfondo alla tragica storia d’amore. E non poteva essere altrimenti: ancora fresco era il ricordo della propria terra all’indomani della sua partenza – a bordo della nave Saturnia – dal paese natale, San Marco in Lamis, insieme alla giovane madre, per conoscere e ricongiungersi al padre emigrato in America prima che lui nascesse.
Il Gargano: quel monte dal volto marmoreo che quasi opprime ma dal tramonto d’oro che riesce a trattenere il «barbaglio di porpora» e da cui si scorge «da un lato in lontananza/ il mare, ed altre cime ed altro verde/ dall’altro lato». Quel monte di cui l’Autore sente ancora (e sentirà per sempre fino alla sua morte) la fragranza di petali e foglie, il tintinnio di rami e campani, il sospiro di uomini e campi. E poi quella cruda verità, gelosamente nascosta: lui sapeva benissimo che il suo era un esilio senza ritorno perché non si ritorna mai indietro, ciò che è lasciato è lasciato. Orfeo perde la propria sposa, Tusiani la propria terra, entrambi salvano – però – la poesia, perché – come ci ricorda Fiorenza Mormile nel suo Vizietto orfico «quello che conta è l’emozione dell’assenza:/ dare un nome all’eterno vuoto interno/ misurandosi a colmarlo di parole». E Dio solo sa quanto bisogno ci sia di poeti per ricordarci di essere ancora vivi!