Eravamo comunisti è il titolo di un libretto di Umberto Ranieri (pp. 108, Rubbettino, 2021, € 13,00, Prefazione di Giuliano Amato, Interventi di Biagio De Giovanni e Salvatore Veca) che ripercorre, velocemente ma con molta efficacia, la storia del Partito Comunista Italiano. E lo fa non come storico di professione, bensì quale protagonista delle vicende che racconta.
Ranieri, infatti, ha ricoperto incarichi istituzionali, dapprima dentro il PCI e poi nei partiti nati dalla fine del comunismo, ed ha avuto sempre una visione “riformista”, in sintonia, soprattutto, con la cosiddetta ala “migliorista” del PCI, impersonata principalmente da Giorgio Napolitano, che, insieme a Giorgio Amendola, era ritenuto appartenente a una corrente “di destra”.
Insomma, le riflessioni di Ranieri vertono, soprattutto, sul mancato approdo del PCI alla socialdemocrazia, intesa, soprattutto, nel senso del riconoscimento dell’economia sociale di mercato quale sistema capace di generare benessere economico e, nello stesso tempo, con opportuni “miglioramenti”, capace di ridurre le diseguaglianze e, come spesso usa dire soprattutto papa Francesco, non lasciare indietro gli ultimi, i meno fortunati ed i più fragili, lo scarto.
Quello che risalta, nella sua analisi, e pour cause, è, però, la peculiarità del PCI, che, pur nell’ambiguità dei legami con l’Unione Sovietica, ha saputo comunque affermarsi come forza politica che ha dato un forte impulso alla realizzazione, in Italia, di un sistema democratico avanzato, che ha nella Costituzione repubblicana un solido fondamento.
E allora, come mai, pur essendo nella pratica un partito, in qualche modo, liberalsocialista, non ha mai avuto il coraggio di scelte più coraggiose, rimanendo “in mezzo al guado”? Come mai, ancora oggi, anche il PD fa fatica a recidere del tutto i legami con posizioni stataliste e contrarie apriori all’economia di mercato, rifugiandosi dietro la retorica che spesso accompagna la demonizzazione del neoliberismo? Come mai molti, che pure avevano maturato la consapevolezza che il comunismo non poteva funzionare sul piano economico e della libertà, non hanno mai rinunciato a dichiararsi comunisti? Perché non è stato abbandonato mai il mito fondativo dell’Unione sovietica? Perché si aveva paura a pronunciare la parola “riformismo”?
Una risposta la dà Salvatore Veca quando afferma: “Noi eravamo comunisti anche per l’ammirazione e il rispetto nei confronti della moralità dei militanti del partito, del loro impegno e della loro dedizione”, anche se quei militanti erano legati al mito dell’Unione Sovietica.
Credo che, anche a San Marco, molti di noi siamo stati comunisti, e magari non socialisti o socialdemocratici, per questo motivo.
Queste riflessioni vengono alla mente considerando che, mentre è in corso lo svolgimento della elezione del nuovo segretario nazionale del PD e mentre ci si accinge ad un congresso di rilancio, a San Marco, pur avendo una amministrazione che si richiama al PD, non è stato avvertito il benché minimo bisogno di aprire un dibattito, di considerare che cosa il PCI sia stato anche a San Marco, dimenticando completamente “la moralità, l’impegno e la dedizione” di migliaia di donne, giovani e uomini che, anche a San Marco, hanno dato un contributo di passione politica e impegno civile.
G. S.