L’amarcord di Mario Ciro Ciavarella fra nostalgia del tempo andato e gli stili più spigliati della nuova civiltà industriale
di SERGIO D’AMARO
Restanza è una parola usata dall’antropologo Vito Teti per indicare l’incrocio tra restare e partire. Non esiste solo la nostalgia di chi ha lasciato il suo paese o la sua città, c’è anche quella particolare nostalgia di chi ricorda com’era prima la vita del suo paese, di quanta storia è trascorsa trascinando nell’oblio le nuove generazioni. La memoria, allora, si svela adatta anche a fare utili confronti, a creare collegamenti.
La sostanza di un paese del sud acquisito alla modernità è il risultato di un generale compromesso tra arretratezza ed evoluzione, un processo di ibridazione in cui il vecchio è raggiunto dal nuovo e questo si innesta sullo strato sottostante del vecchio secondo un principio di lenta continuità. Non sempre il nuovo è migliore del vecchio, non sempre il vecchio è genuinità o benessere anche psicologico. Quante volte abbiamo lodato il paese di una volta e quante volte lo abbiamo visto diverso e anche, duro, difficile, buffo, povero, indifeso.
La mano lieve e ironica di Mario Ciro Ciavarella, nel suo amarcord intitolato “San Marco, dintorni e “zone limitrofe”. La “rutilante” vita nella San Marco i Lamis degli anni ’70 e ’80 (ed. in proprio «La puscina dellu Priatorie», pp. 327), riesce a tenere a freno le sottostanti sirene della nostalgia del tempo andato, anche focalizzando la sua attenzione sui passaggi fondamentali dell’epoca vista con gli occhi dell’infanzia e dell’adolescenza.
Le descrizioni di Ciavarella si riferiscono ad una terra periferica che ha già attraversato l’esperienza del boom economico degli anni ’60. Il paese dei decenni subito successivi sta già ampiamente godendo dei comfort, della motorizzazione, degli stili più spigliati della civiltà industriale, ma contemporaneamente trattiene ancora per un po’ quel tanto di vita ancestrale che permette di alternare con pari dignità il dialetto e la lingua, il vicino e il lontano, l’umile e il sublime.
L’autore (che è anche un valente commediografo) tratta i suoi attenti ricordi spargendovi abbondanti spezie umoristiche, antidoto perfetto per tenere in equilibrio una materia troppo vicina alla propria esperienza e per evitare fin troppo facili inni al passato di un paese che era adagiato in una valle senz’altro più verde di oggi.
Il progresso ha significato soprattutto partire e ha prodotto molta emigrazione, che ha contribuito però poi a stimolare il nuovo, a raccontare nuove strade, ad incrociare nuovi canali di una lunga nostalgia.
La serie dei «c’era una volta» riguarda anche questo tema, ma tanti sono i percorsi memoriali che l’autore mette in scena: quelli della scuola (compresi i libretti delle assenze da giustificare, le sue cartelle con la parca merenda), della casa (con la conquista del telefono condita di episodi esilaranti), delle vacanze al mare su affollati torpedoni, delle feste patronali impreziosite dalla partecipazione di famosi cantanti, dei sedicenti club messi in piedi dai giovani per conquistare le loro belle, delle radio private tempestivamente attivate per dare musica e cronache sportive, delle sale cinematografiche in cui sognare avventure esotiche alla maniera del Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, delle ridicole scaramucce tra i più popolari partiti politici.
Uno spettacolo involontariamente anchecomico e grottesco, così come ci è stato tramandato da un magistrale Fellini e dalla commedia all’italiana. E che dire ancora del valore altamente socializzante dell’intoccabile «struscio» per le strade o degli epici tornei di calcio?
Preziosi fotogrammi rubati golosamente ad una storia minore, ormai diventata patrimonio comune delle generazioni non più giovani che hanno assistito stupite al passaggio, ad esempio, dal telefono a gettoni allo smartphone e dalle vecchie care lettere scritte a mano alla digitazione frenetica dei post e dei tweet.
L’articolo è stato pubblicato il 20/11/2023 su La Gazzetta del Mezzogiorno, nella pagina culturale nazionale.