Ricordo di Luigi Delle Vergini ad un anno dalla sua scomparsa
Queste righe riprendono parte del testo originario predisposto per il semestrale della morte di Luigi Delle Vergini, docente e politico venuto a mancare il 5 maggio 2023 in Lucera, sammarchese di origine e che molti sammarchesi hanno avuto la fortuna di conoscere. Lucera nel frattempo non è stata designata quale capitale italiana della cultura, ma la speranza di pace di cui essa è portatrice è pur sempre ed ancora viva ed attuale.
di Ludovico DELLE VERGINI
Gigino nasce nel gennaio del 1941.
“Oggi è Domenica, domani si muore, oggi mi vesto di seta e d’amore”
e ancora
“Oggi ti vestono la seta e l’amore, oggi è Domenica, domani si muore”.
Sono la traduzione in italiano di alcuni dei primi versi in friulano (poi contenuti nella raccolta intitolata “Poesie a Casarsa” e, significativamente ancor dopo, “La meglio gioventù”) scritti da Pier Paolo Pasolini in quegli stessi anni di guerra.
Sono dei versi che costituiscono il migliore commento per chi vede la fotografia di Nicola e Michelina, i genitori di Gigino, il giorno del loro matrimonio.
Papà Nicola è stato uno di quelli della “meglio gioventù”.
Un’espressione, questa, in un italiano non formale, ma schietto e vero – come si direbbe: “dal basso” -, ripresa come titolo artistico oltre che da Pasolini anche da un regista cinematografico come Marco Tullio Giordana in quel suo noto affresco storico sull’Italia degli ultimi decenni del secolo passato ma realizzato nei primi anni di questo millennio, apprezzato forse più all’estero che da noi. Essa è contenuta in un canto alpino di guerra, che nella musica riprende un precedente canto della prima guerra mondiale e che narra della distruzione del Ponte di Perati, sul fiume Sarantaporos, tributario della Voiussa, al confine fra Albania e Grecia, la cui acqua, come dice il canto, “col sangue degli alpini si è fatta rossa”.
Non dobbiamo mai smettere di studiare, indagare ed appassionarci sugli eventi dell’ultima guerra che, fortunatamente ormai ottanta anni fa, ci ha coinvolti.
E’ una guerra che non è stata come quella purtroppo narrata dalle ricostruzioni televisive delle tante e dolorose guerre attuali, dove la distanza geografica e la comodità di una buona poltrona fanno somigliare tutto ad un innocente, innocuo ed illusorio videogioco in cui tutti siamo scioccamente strateghi e tutti generali.
La seconda guerra mondiale è stata una guerra decisa da altri (ma quali guerre sono veramente volute dai soldati che vi sono mandati, se è invece vero che sono solo un orrendo strumento per riguadagnare il consenso perduto da chi le decide?), ma al tempo stesso è stata la guerra “nostra”, la guerra dei nostri affetti, delle nostre sofferenze, dei lutti vissuti in prima persona, dei nostri paesi distrutti da un giorno all’altro.
“Ponte di Perati” è una località che la memoria militare menziona con affetto ancora oggi, a ricordo di una guerra non voluta ma ciononostante amata perché con essa, come dice appunto il canto, la “meglio gioventù” è andata sottoterra.
Papà Nicola e mamma Michelina si sposano, proprio in una domenica di seta e di amore; dal loro amore viene concepito Gigino e, come nella poesia di Pasolini, praticamente l’indomani, l’Italia entra in guerra e, Gigino appena nato, papà Nicola muore.
Non propriamente a Perati. Muore nella sua San Marco, frettolosamente ritenuto dalle autorità superiori come abile fingitore pur di non andare a spezzare le reni alla Grecia dalla regia guarnigione italiana dell’albanese Argirocastro, posta poco più a sud di Perati. A Perati c’erano gli Alpini della divisione “Julia” con i loro muli. Ad Argirocastro i fanti della divisione “Ferrara” (già divisione “Murge”) con i mezzi corazzati leggeri.
Sfido a trovare chi, dal cuore buono, non si ammalerebbe sapendo di passare dalla seta e dall’amore del dì di festa all’ordine di uccidere un proprio fratello. La legge dei numeri ci dà un tragico conforto: anche nella guerra di Grecia quella degli ammalati è la voce numericamente preponderante: più dei caduti, più dei feriti, più dei congelati, più dei dispersi, più dei prigionieri.
Della malattia di papà Nicola ho personalmente ascoltato racconti di testimonianza diretta, fatti da mio nonno paterno, che era suo fratello, e da mia madre, che era imparentata per parte di madre con mamma Michelina.
Gli scenari, vivi nella memoria come una sequenza cinematografica, sono due; anzi tre; anzi quattro.
Il medico condotto del paese che sente il dovere di recarsi all’ospedale militare di Bari, implorando i superiori di lasciar tornare l’infermo, ormai rimpatriato dall’Albania, a casa, perché tragga un sia pur minimo beneficio dal conforto della moglie, nel frattempo divenuta madre, dei genitori e dei fratelli (tutti, tranne uno, come poi verrò a dire, anche lui lontano da casa).
Mio nonno che descrive il viaggio in calesse con il fratello infermo dalla stazione ferroviaria di San Marco (da qualche anno inaugurata ed orgoglio delle autorità dell’epoca), dove Nicola era nel frattempo stato trasportato in treno, al paese. Un viaggio che, tra le urla di dolore e il lento procedere dei cavalli in salita, non sembrava far passare mai la nottata.
Mia madre bambina che da una traversa del corso principale del paese sente le urla di dolore del marito della zia, da poco madre di Gigino.
Le vie del paese che in quegli anni diventano, come in tutta l’Italia, teatro di scene da brivido ogni volta che il postino recapita missive su carta ufficiale e dal tono paludato. Ad ogni apertura di busta seguivano le urla disperate delle donne che ne erano destinatarie. Non c’era allora la televisione, la guerra non era allora un videogioco da seguire seduti comodi in poltrona: la guerra era il triste affare di tutte le donne lasciate sole, prima e dopo l’uccisione dei loro cari, in paese.
Mamma Michelina, mite nel carattere, dal canto suo reputò giusto non urlare: del resto la tragedia del marito non le si era manifestata, come per le altre donne, in un attimo dopo il triste rito dell’apertura di una lettera, ma, incessantemente, giorno dopo giorno.
* * *
Gigino era persona che credeva molto nell’amicizia.
Ne aveva una concezione quasi sacrale. Era come se avesse un debito di riconoscenza verso gli amici.
Citerò solo i suoi amici di gioventù, quelli degli anni vissuti a San Marco.
Dell’amicizia con alcuni di essi sono venuto a conoscenza in momenti diversi nel corso della mia vita per il riferimento che me ne è stato fatto da loro stessi. E ciò è stato in un certo senso per me motivo di orgoglio per il cognome anche da me portato.
Richiamavo quindi appena possibile Gigino per riferirgli dei saluti dell’amico e lui si limitava all’inizio a brevi cenni di rallegramento, cogliendo poi l’occasione di riallacciare rapporti che il passare del tempo aveva diradato.
Raffaele Bonfitto, Pietro Ciavarella, Pasquale Coco, Nazario Di Carlo, Vincenzo Giuliani, Umberto Nardella, Damiano Nocilla, Angelo Villani. Li ho elencati in ordine alfabetico per non porre nessuno davanti agli altri. Mi perdoneranno coloro che si vedranno qui omessi.
Voglio, tra questi, però ricordare in modo particolare Vincenzo Giuliani, che, come è stato per Nazario Di Carlo e Raffaele Bonfitto, ci ha prima di Gigino abbandonati.
Lo voglio ricordare non per aspetti della sua figura, umana e culturale (mi limiterò solo a dire che a cavallo fra gli anni ’70 ed ’80, faceva dono a noi sammarchesi di illuminanti lezioni sul mondo islamico), quanto per il senso di gratitudine che Gigino ebbe a manifestarmi allorché gli comunicai, nel settembre del 2015, la notizia della sua morte. “Ti ringrazio davvero di avermelo detto” – mi disse Gigino per telefono – . “Come – dissi tra me e me –: quando mai uno fa ringraziamenti così accorati nel ricevere una notizia luttuosa?”
Seppi poi che Gigino si era recato a San Marco per i funerali dell’amico Vincenzo, sfidando le avversità atmosferiche e le ostilità del corpo che già da allora gli rendevano la vita non certo facile.
Maturai la considerazione che il suo senso di riconoscenza verso gli amici era un po’ come quello che si nutre per un genitore, un educatore, un maestro.
Gli amici avevano svolto per Gigino, tutti insieme, quel ruolo che non ebbe il suo padre vero, fin troppo prematuramente scomparso.
* * *
Nel 2006 venne diffuso da una storica slovena, a seguito di ricerche su archivi ufficiali, l’elenco dei nomi di appartenenti alle forze di polizia italiane sommariamente processati e buttati giù nelle foibe dalle armate jugoslave di Tito nella primavera del 1945.
Tra questi vi era il nome di Antonio Delle Vergini, fratello di papà Nicola e di mio nonno, da tempo in servizio quale agente di pubblica sicurezza tra Milano e Gorizia.
Dello zio Antonio non si seppe dalla fine della guerra più nulla.
Giunse una volta nel paese la notizia che, avuta intuizione dell’aria che tirava a Gorizia nei primi giorni del maggio 1945, si fosse nascosto nell’armadio di una casa, ma che una delazione gli risultò fatale. Poi più nulla. Non si contano le persone che vennero incaricate dalla sorella, la zia Graziella, la cui casa era punto di riferimento per Gigino nel periodo romano dei suoi studi universitari, pur di saperne qualcosa.
Detti a mia volta, nel 2006, comunicazione del ritrovamento degli archivi ai parenti, un po’ dispiaciuto del fatto che mio nonno e tutti gli altri suoi fratelli erano nel frattempo venuti a mancare.
Gigino, per il quale la notizia era un po’ come la riapertura di un’antica ferita mai rimarginata, si limitò a riferirmi del ricordo che aveva dello zio quando tornò una volta al paese vestito di un elegante impermeabile chiaro, come si vede in una delle rare fotografie.
Anch’io ho a mia volta un ricordo di Gigino vestito con un impermeabile chiaro.
Lo ricordo così vestito nel corso principale di San Marco il tardo pomeriggio del 9 maggio del 1978, in quei momenti in cui le piazze d’Italia si riempivano di gente, muta, in un’aria incerta e spettrale.
“Pazzo!” – fu il commento di alcuni dei familiari – “Lascia da sola la moglie Lucia con Michela piccolina e Nicola praticamente neonato per venire a fare ancora una volta politica in paese!”
Capii che per non sentirsi smarrito Gigino aveva bisogno di trovare conforto nelle persone del suo paese natale. Divenuto foggiano prima e lucerino poi, era solito ritornarvi. Lo faceva per incontrare parenti ed amici. Lo faceva perché la passione che aveva per la politica significava per lui confronto assoluto e significava confronto in primo luogo con il proprio passato, con il proprio vissuto.
Uno dei familiari si prese allora l’arduo compito di sussurrargli amorevolmente che, sì, Aldo Moro era stato barbaramente assassinato, che allora più che mai vi era il bisogno che la politica mantenesse forza e compattezza, ma che tuttavia era meglio che lui in quel momento stesse vicino a sua moglie, a sua figlia Michela di poco più di un anno e a suo figlio Nicola di pochissimi mesi.
Non sapevo, giovanissimo come ero, se approvare o disapprovare quel suo comportamento. Decisi tuttavia da quell’episodio che Gigino sarebbe diventato l’anno successivo il mio padrino di cresima.
* * *
Ci fu una cosa di cui Gigino, più di tutte, andava orgoglioso nel ricordare la sua attività politica. La costruzione negli anni ’70 della nuova sede della Biblioteca Provinciale di Foggia, motivo di vanto per la nostra Provincia; quella che poi con l’inizio del nuovo millennio, con sapienza storica da un lato (ricordando il verso dedicato a Foggia in una celebre ballata di Re Enzo di Svevia, figlio dell’Imperatore Federico II) e lungimirante senso di ricercabilità telematica dall’altro, è stata ribattezzata la “Magna Capitana”.
Non ricordo quale fu il ruolo preciso che ebbe nella vicenda, ma, ogni volta che nelle nostre discussioni si ricordavano fatti e persone che avevano e che hanno ancora oggi a che fare con detta Biblioteca, Gigino lasciava sempre trasparire un senso di orgoglio e soddisfazione.
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Gigino andava orgoglioso anche del Circolo Unione, uno dei pochi luoghi di Lucera in cui siamo stati insieme fuori di casa sua, nonostante i ripetuti suoi inviti, da me mai accolti, a cogliere l’occasione per essere portato a visitare tutta la città.
Per un amaro caso vi sono stato in parte portato il pomeriggio dopo i suoi funerali e ho scoperto che Lucera è stata in tempi antichi una città di convivenza fra popoli, alcuni dei quali sono tornati a non avere purtroppo recentemente tra loro pace.
Gorizia sarà prossimamente, insieme alla consorella slovena Nova Gorica, la capitale europea della cultura. Non più, quindi, come nel canto della prima guerra mondiale e come poi per lo sfortunato Zio Antonio ad altra guerra mondiale oramai già finita, città “maledetta”.
Lucera sia, dal canto suo, capitale della cultura italiana e capitale di speranza di pace.